In un periodo storico in cui molte rock band stanno bruciando i ponti con il passato nel tentativo di rinnovare il genere attraverso la contaminazione con sonorità più affini all’elettronica, i War on Drugs sono riusciti a stagliarsi nel panorama musicale e a diventare i degni portavoce di un genere ormai dimenticato dalle nuove generazioni. Se è vero che la band nativa di Philadelphia possa ricordare i grandi nomi del synth rock anni ’80 (Springsteen, Tom Petty e Knopfler su tutti), non c’è dubbio che sia al contempo riuscita a plasmare un’identità sonora estremamente unica e distintiva: è forse questo ciò che li rende una band che deve assolutamente essere ascoltata, soprattutto dal vivo.

Mi capita spesso di approcciare un concerto con un velato timore, una preoccupazione che il live non soddisfi le mie aspettative e questa sensazione è tanto più forte quanto più la discografia dell’artista o della band in questione è caratterizzata da alti e bassi. Nel caso dei War on Drugs, questa sensazione non si è mai palesata: non ho mai avuto dubbi dal momento in cui è stato annunciato il concerto a Milano fino all’attimo in cui sono entrato al Fabrique. Quando la discografia della band conta 4 LP di assoluto valore e quando gli ultimi 2 dischi sono dei veri capolavori come Lost In The Dream e A Deeper Understanding, non ha senso preoccuparsi di quale sarà la scaletta del concerto: ogni canzone sarà esattamente quella che avresti voluto sentire.

Alle 21.30 in punto Adam Granduciel sale sul palco di fronte ad un Fabrique molto vicino al sold out; alle sue spalle un allestimento semplice, minimale, due file di LED triangolari che si incrociano al centro formando una X allungata; ad accompagnarlo ci sono 5 componenti della band: batteria, basso, chitarra, tastiera/fiati, seconda tastiera. Il fatto che la band si sia presentata esattamente all’ora annunciata dall’organizzazione non è un caso: tutto ciò che circonda Adam Granduciel è caratterizzato da precisione maniacale.

Il giro di piano di In Chains risuona nel locale che si ammutolisce improvvisamente. Quando entra la batteria iniziano a muoversi a ritmo i piedi e le teste di alcuni membri del pubblico. La voce di Adam suona cristallina, gentile, dolcemente nostalgica. Sembra un cliché, ma è vero che una sensazione di dolore, di tristezza, permea attraverso la musica dei War on Drugs: è nel testo, nella musica, nella voce e nel linguaggio del corpo di Adam; è, per l’appunto, una catena che costringe il leader della band e che viene infranta in pochi frangenti, come durante l’unico pezzo della canzone che potrebbe considerarsi un ritornello, quando si eleva il synth e la voce si trasforma in un urlo che viene presto soffocato nuovamente.

La seconda traccia, Baby Missiles, è l’unica tratta da Slave Ambient ed è un cambio di marcia che scalda i corpi di un pubblico fin troppo composto, totalmente rapito dalla musica. Sarà Pain a svegliare universalmente la platea, una canzone che è già un classico della band e che è riuscita ad ottenere passaggi in radio in un paese dove raramente è possibile ascoltare artisti di livello. A questo punto della scaletta la band riesce ad avvolgere l’intero Fabrique in una nebbia impalpabile: la musica e la coreografia di luci creano un’atmosfera che dà la sensazione di immergersi in un corso d’acqua che rapisce e culla.

Oltra alla già citata Baby Missiles e a Buenos Aires Beaches, tratta dal primo LP della band, Wagonwheel Blues, la scaletta è costituita per la maggior parte da tracce dell’ultimo LP, che viene quasi suonato nella sua interezza (non trovano spazio soltanto Up All Night e Clean Living) con una fedeltà quasi assoluta rispetto alla studio version che per alcune canzoni viene addirittura superata da una versione live disarmante: è il caso di Strangest Thing che dimostra quanto la band sia una macchina perfetta. A completare la set list ci sono 5 tracce da Lost In The Dream che, ad eccezione di An Ocean In Between The Waves, si concentrano nella parte finale del concerto: Under The Pressure, In Reverse, Burning e la traccia che ha contribuito a consacrare la band a livello mondiale, Red Eyes. È forse quest’ultima l’unica canzone in cui Adam non riesce a dare il meglio: se la parte strumentale risulta impeccabile, la voce che in studio emergeva dall’effetto eco in acuti e strilli che contribuivano a dare dinamicità al brano, dal vivo risulta più piatta e stanca.

In 2 ore piene, i War on Drugs hanno dato una prova di solidità che lascia pochi dubbi sul loro futuro. Se all’alba dell’uscita di Lost In The Dream in pochi si sarebbero aspettati un nuovo album all’altezza del precedente, dopo averli visti dal vivo è giusto pensare che la band di Adam Granduciel abbia un futuro decisamente promettente: la loro professionalità, l’attenzione al dettaglio, la passione che mettono in ogni singolo gesto fa sì che la band sia a suo agio su un palco, piccolo o grande che sia, tanto quanto lo è in uno studio di registrazione. Se musicalmente hanno poco da invidiare a qualsiasi band che attualmente riempie stadi e palazzetti, l’unico aspetto su cui i War on Drugs possono migliorare è la presenza scenica non all’altezza della loro bravura tecnica e non sufficiente a coinvolgere l’intero pubblico in un live di 120 minuti.

Foto di Andrea Pelizzardi.