Con l’arrivo nella sala concerti del Monk Club di Roma ci si rende conto che non si assisterà ad un concerto come gli altri. L’arredamento del locale (divanetti, le sedie di plastica, persino alcuni cuscini) è posizionato in file ordinate, rivolte verso il palcoscenico. Davanti il palco c’è un ampio telo teso, semitrasparente, che lascia intravedere ciò che sta dietro.
Non si fa in tempo a cercare un posto migliore degli altri che sale on stage il bravo Frase, beatmaker canadese dalle influenze folk, rock ed elettroniche, e fa riempire la sala di pubblico e musica. È solo sul palcoscenico, eppure riesce a tenere su l’attenzione e conclude il suo set con una cover di No diggity piena di soul, salutandoci infine con una Vodoo Child solo chitarra.
Tutti prendono posti sui divanetti rossi e i cuscini davanti il palco sono affollatissimi ormai. Un proiettore viene messo in funzione e sul telo davanti il palco iniziano a comparire delle immagini. Sono i fotogrammi, dipinti a mano, dei cortometraggi animati del maestro Gianluigi Toccafondo, che occupano la nostra vista del palcoscenico mentre il collettivo C’mon Tigre prende posto dietro gli strumenti. Chitarra, batteria, sassofono, sintetizzatore, vibrafono, ogni tanto un trombone e un clarinetto baritono: questo basta ai C’mon Tigre per ricreare il proprio sound che declina la world music rock e funk a-la Goat ma in tutte le lingue del mediterraneo. Questo fatto del concerto da seduti, poi, ha avuto dei vantaggi e degli svantaggi: la fruizione dello stesso è stata fantastica; le foto sono uscite malissimo. Ma tant’è, beccatevi questa brutta foto di giraffe e del gruppo.
Il fatto che i membri originari, i compositori dei C’mon Tigre, siano due e siano avvolti nel mistero (si sanno solo i nomi dei musicisti addizionali per queste date live) aumenta solo il fascino di questa miscela musicale androgina e apolide, che circonda l’ascoltatore e come una risacca sonora lo trascina su e giù, con dei picchi di intensità massicci ma non arroganti. Si inizia con Rabat, che come nell’unico LP C’mon Tigre apre la strada al gruppo, che risale fino ad affrontare con impeto il primo climax, quello afrojazz di A World of Wonder e del suo basso sintetico ostinato. Poi la tempesta si calma, e l’ipnosi torna leggera e visiva: i cortometraggi animati di Toccafondo sono quattro, La Pista, Pinocchio, Le Criminel, Essere morti o essere vivi è la stessa cosa; a questi si aggiunge quello che il maestro ha disegnato appositamente per il singolo del gruppo, ovvero l’omonimo Federation Tunisienne De Football, che appare in sovrimpressione mentre il gruppo si esibisce nel secondo climax assoluto del concerto.
Apparentemente i C’mon Tigre chiudono con una Building Society – The Great Collapse diluita, estesa, con un assolo di trombone intrecciato a uno di sassofono mentre la chitarra secca e ipercompressa, col synth e la batteria, marcia battendo la ritmica. Invece finiscono dietro il palco e vengono richiamati per il bis, così tornano e suonano (abbastanza autoironicamente) Welcome Back Monkeys, con la batteria elettronica a sostituire quella reale; chiudono con la traccia finale del loro LP, Malta (The Bird and the Bear), mentre sullo schermo passa la scritta “Essere morti o essere vivi è la stessa cosa”.
Questa dei C’mon Tigre al Monk è stata un’esecuzione perfetta, a cavallo tra la riproduzione pedissequa, gli accorgimenti da live e l’improvvisazione; il collettivo tiene il palco per più di un’ora senza trucchi, senza occhiolini, senza arringare un pubblico attentissimo. L’impressione è quella di aver assistito quasi sotto ipnosi ad un concerto irripetibile, ad un’occasione rara di osservare nelle condizioni ideali un gruppo che attraverso un linguaggio personalissimo sta emergendo – o si meriterebbe di farlo – dall’underground italiano per arrivare a posizioni che più gli competono. C’è da fare, ma la materia prima e la maestria di questo supergruppo è innegabile.