Sono trascorsi più di due anni tra la recente uscita di A Day in a Yellow Beat e quella volta che ipotizzammo il decollo definitivo di George van de Broek, quel giovane inglese classe ’99 dalle acconciature bizzarre meglio conosciuto col moniker di Yellow Days. Due anni intervallati, purtroppo, da alcuni problemi che lo hanno portato spesso ad annullare, rivedere e ripensare alcune esperienze importanti, soprattutto live. Se nel momento più importante della tua carriera, dunque, ti vedi costretto a rallentare la tua marcia, è più che lecito che allora, una volta ritrovato l’equilibrio, tu voglia dimostrare quello che sai fare, recuperando il tempo perso.
Forse è anche per queste parentesi di stop che Yellow Days sia tornato con un album lunghissimo, come per dire a tutti che lui c’è sempre stato, e che, nonostante i momenti di silenzio e i calendari del tour spesso rimandati, l’obiettivo è rimasto sempre quello di fare musica. Se alla base dell’album c’è dunque questa voglia di rivalsa, dispiace doppiamente pensarlo, ma va detto che A Day in a Yellow Beat è un album che non funziona, proprio perché ci si perde dentro, nelle sue ridondanze portate all’estremo. Per carità, nel nuovo album ci sono tutto Yellow Days, il suo talento e le sue ispirazioni; ma un’ora e venti minuti di registrazione – 23 tracce di cui alcuni interludi – porta a svalutare quel mix di pigrizia millennial da cameretta e energia funk anni ’70 che fin dall’inizio ha caratterizzato la sua soluzione artistica.
Le prime parole dell’album sono affidate al mito assoluto di George, Ray Charles, che dialoga con un intervistatore sull’approccio dei giovani artisti alla musica commerciale, in un’industria in perenne cambiamento (cambiamenti dell’epoca che come spesso accade, “sembrano detti oggi!“). Un oracolo che parla, quindi, per mettere subito le mani avanti: Yellow Days, al suo nuovo album con Sony, ci comunica che i compromessi con la major sono un discorso sempre vivo. Aprendo l’intro con Ray Charles, vien da sé che i primi brani proseguano evidenziando l’influenza del mentore: Be Free, Let You Know e Who’s There? sono infatti una rielaborazione funk anni ’70, ma che tengono presenti già i filtri contemporanei, per esempio, di Anderson .Paak e Thundercat.
Un cambio di marcia si ha con Getting Closer e, dalle reminiscenze di Malibu di Anderson .Paak, si approda immediatamente nell’altra metà di Yellow Days, ossia nelle sonorità di Salad Days di Mac DeMarco, il quale tra l’altro lo troveremo direttamente più avanti, troppo più avanti nell’album. Getting Closer è lo step del disco in cui il synth riprende il sopravvento e quelle harmless melodies delle origini tornano vivissime, e piacevoli (Harmless Melodies è il primo EP di Yellow Days, quello che ci fece ben sperare sul suo futuro). Dalla sesta traccia dunque la musica di Yellow Days torna ad essere maggiormente quella basica, il suo grado zero; ma è così che, proseguendo con l’ascolto, ci rendiamo conto che sarà davvero difficile andare avanti, perché ancor prima della metà di A Day in a Yellow Beat tutto comincia ad essere già un déjà vu. Keep Yourself Alive e Open Your Eyes diventano più che due brani, due preghiere all’ascoltatore, che ha davanti a sé ancora una decina di canzoni da sentire, tra una batteria monotona, i synth infiniti, qualche sprazzo di ottoni e una scrittura retorica e piuttosto vuota, che si barcamena, anche qui, tra la sensualità ’70s (il motore dell’album si ingolfa al suono di “Oh baby!“) e la noia da cameretta (immagini di piccoli sogni svogliati, quelli che si immaginano sdraiati sul letto guardando il soffitto).
L’ultima mezz’ora dell’album si dissolve in una monocorde ripetizione di tutto ciò che la precede; nulla può The Curse, un pezzo – per carità – piacevole, che si avvale della collaborazione, come anticipato, di Mac DeMarco, ma che si trova ormai in una fase compromettente della tracklist. Cosa ci resta di A Day in a Yellow Beat? Qualche riff che si appiccica nella mente, la voce graffiante di George e una riprova di un talento cristallino, ma che purtroppo implode in una eccessiva ripetizione di sé stesso, facendo sfociare nella maniera ciò che invece è una limpida vocazione artistica.
A Day in a Yellow Beat doveva essere la pista per il decollo, ma Yellow Days resta a terra: eccesso di carico. Sarà per la prossima volta.
Tracce consigliate: Getting Closer