Dopo una manciata di singoli dall’orientamento stilistico un po’ confuso e uno split album registrato con i fiorentini The Hacienda per Black Candy Records, i milanesi Wemen capitanati dal buon Carlo Pastore sono giunti all’esordio discografico, registrato in presa diretta presso il Folsom Prison Studio di Prato. Come già riscontrabile dal titolo Albanian Paisley Underground ( il “Paisley Underground” è un termine che si usa per identificare quella parte della scena della Los Angeles di metà anni’80 che operava una ripresa sistematica della psicheledelia delle origini, dai Jefferson Airplane a, naturalmente, i Velvet Underground) quello che abbiamo fra le mani è un disco votato al citazionismo, più che alla ricerca sonora. E fin qui niente di male. 

Il dico si apre con Prince Of Persia e con i suoi chitarrini alla Mac DeMarco in odore di scordatura, un brano che richiama in apertura la componente esotica di questo lavoro – e così il successivo Young Ebenezer, che, tra suggestioni orientaleggianti non troppo credibili di zeppeliniana memoria, evoca un’atmosfera spazzata via dai brani seguenti: Coming Over Me e Jim & Jam richiamano infatti con assoluta chiarezza i Clash, ed il citazionismo comincia a puzzare di “enciclopedia delle influenze della band”. Se le due precedenti potevano sembrare cover 2.0 dei Clash, la successiva Kingston Advice lo è: non male se decontestualizzata, tutt’altro che lusinghiera se inserita in un album che comincia a sembrare una compilation. Le due canzoni successive non sono riconducibili a nessuna delle atmosfere evocate in precedenza, ma, accantonati sia i Kula Shaker più orientaleggianti che i Pere Ubu, si orientano verso un pop-punk molto meno interessante, che suona tuttavia decisamente più sincero. Ancora diverse e di nuovo in coppia ascoltiamo The Surfer e Tremerai ancora, e, mentre l’impressione che il bello debba ancora cominciare, con la successiva Will Be Fine (una ballad vicinissima ai primi Stone Roses), il disco finisce.

Vi hanno mai detto che non bisogna mai cominciare con “Allora…” quando si vuole raccontare una barzelletta? Bene, non vi avranno però certamente mai detto che è altrettanto inefficace sostituire con la stessa congiunzione la maggior parte delle parole che la compongono; nessuno via ha mai spiegato che se diceste ai vostri amici “Allora…lo sai qual è il colmo per allora? Avere una figlia che si chiama Margherita!” loro vi guarderebbero come se foste impazziti, e non riderebbero affatto. Ciononostante sono sicuro che nessuno nella storia del mondo l’abbia mai fatto, conscio che non avrebbe assolutamente raccontato una barzelletta, quanto piuttosto assemblato verbalmente un pass VIP  per il manicomio più vicino. Con le dovutissime differenze, questa è l’esatta situazione nella quale ci troviamo ascoltando questo disco: siamo di fronte ad un lavoro fatto di premesse, citazioni, congiunzioni, orpelli, arrangiamenti e canzoni in odore di qualcosa, quello che manca è la sostanza. Le canzoni che lo compongono sono, per carità, tutte carine e ascoltabilissime, e mai un arrangiamento, un giro di accordi, un fraseggio di chitarra o di cantato risulta fastidioso, anzi, la maggior parte risulta pure gradevole. Il problema è che tutto in questo disco ci lascia intendere un qualcosa che non arriva mai, ci fa soltanto intravedere una flebile vena compositiva (se non straordinaria quantomeno sincera) assolutamente soffocata da container di elementi alloctoni.

Ottima però, tornando da Prato (che ci piace ricordare per produzioni come questa), la scelta confessata da Carlo nelle note di copertina di mangiare all’American Diner di Calenzano, che fa dei panini che sono una bomba.

Recommended tracks: Prince Of Persia, Coming Over Me