Ci è chiesto urlando di diventare grandi. Ci viene imposta una sensibilizzazione e richiesta una maturità tali da non continuare a rimanere sull’uscio delle cose. Non possiamo più solo affacciarci, ora infatti dobbiamo decidere se stare dentro o fuori. Oltre alle madri e al mondo, anche Theo Parrish reclama la stessa iniziazione porgendoci American Intelligence senza benzodiazepine. Chi arriva in fondo all’ultimo lavoro del produttore americano, solo costui sarà uomo adulto.

L’indubbia abilità, propria di Theo Parrish, di spostare anche solo idealmente stormi umani presso la sua dimora al di là dell’Atlantico, per poi muoverli dall’Illinois al Michigan, come disegnando nuovi movimenti migratori, fa dello stesso un carovaniere che nutre speranze ridenti e un pioniere che muove il progresso. Theo Parrish è un personaggio a tutto tondo, e cioè retto e dissoluto, fidato e inattendibile, ammaliatore e nessun suo contrario. Figlio non di ambizioni cieche, ma di riscatto ed emancipazione come dal canto suo la musica house tutta, Theo Parrish, è quella piacevole e suadente voce la quale mormora nelle orecchie ma che è tutt’altro che coscienziosa.

Per cui è facile lasciarsi molestare da questa e dal suo brusio. Ancora, come in un racconto introspettivo e di autoanalisi, è facile permettere poi che il suono duro e profondo solchi il tessuto emozionale, e che la narrativa psicologica del racconto divenga strumento di autointrospezione. E Theo Parrish stesso, a buon diritto, soprattutto per mezzo di American Intelligence, si corona appunto scrittore e demiurgo di detta narrazione; come un plasmatore forgia un’arte tangibile, concreta, personificata: egli stesso è l’arte stessa.
“The concept of these songs being trancelike in some places, narrative in other places, trying to be as reflective of what my command is in terms of skill, which is doing my best with what I have. The idea of pure expression, making people be able to move and feel like they can be themselves or like they can let go of their masks.” Dal vivo è proprio come dice, prova provata.

Spegni la sigaretta e butti giù lo Xanax quando ormai sei al buio e ti è finito il fumo nell’occhio. American Intelligence è dominato da un suono barocco e profondo, composto di brani che sono piuttosto delle suite. Cavernoso come da copione, il quadratissimo lavoro di Theo Parrish è ipnotico e melodico ma allo stesso tempo angusto e grigio. Il suono chiuso che sembra correre alle spalle è spesso ornato di motivi banali scritti su piatti stretti e alle volte casse dritte (Drive, Footwork, Cypher Delight, Helmut Lampshade). Come invece da canovaccio più moderato e soulful, American Intelligence, non manca di giri break o di stessi principi attivi del jazz/nu jazz (Creepcake, Make No War, Fallen Funk, Be In Yo Self): imprescindibili e appuntite tastiere, puntuale groove funky, e qualche accompagnamento vocale. Voci che, a differenza di quanto accadeva in Sound Sculptures Volume 1, dove la facevano da padrone grazie al supporto di MonicaBlaire, in questo quarto album sono sporadiche e non estensive, piuttosto sarebbe bene parlare a proposito di evoluzioni vocali. Si guardi ad Ah, di una sensualità e carnalità disarmante, la quale contempla per di più la presenza del gigante Marcellus Pittman.

Come si diceva, Theo Parrish trascina da Chicago a Detroit e viceversa. Volentieri e molto spesso, poi, fa montare sul pick-up l’inatteso anziano coltivatore di cotone, il quale tra i pochi denti rimastigli canta a mezza voce il motivo che più gli riporta alla mente il suo profondo animo soul e nero. Ne viene fuori un viaggio sincopato e poliritmico, ma soprattutto come da anni non si faceva. Fissando le dita del vecchio ingiallite dalle sigarette fumate con avidità negli anni, Parrish comprende di essere diventato grande, di esser divenuto, con American Intelligence, chi da tempo desiderava diventare. Ora sta a te diventare adulto per accogliere amorevolmente questa biografia parrishiana e quella voce scriteriata.

Tracce consigliate: Footwork, Ah.