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tempo / tèm·po/ sostantivo maschile
Nozione che organizza la mobile continuità di stati in cui s’identificano le vicende umane e naturali, ricollegandola a un’idea di successione o di evoluzione; Continuità illimitata ma suddivisibile in corrispondenza allo svolgersi di determinati fenomeni e alla durata di certe azioni, situazioni o condizioni.

Ciò che avete appena letto qui sopra è la definizione di tempo, nozione trasversalmente accettata, nonchè tema ricorrente nell’universo musicale. Esiste un uomo che ha un curioso concetto dello scorrere incessante delle lancette, il suo nome è John Dwyer, leader dei riformati(?) Thee Oh Sees; ma lasciamo che siano le cifre a parlare al suo posto: al netto del consumo smodato di allucinogeni, la band californiana ha pubblicato dal 1997 ad oggi qualcosa come 40 lavori, se includiamo nel lotto anche gli EP, i singoli e i live album. Mica male direte voi, eh? E quando nel 2013 il frontman annunciò una pausa dalle scene a tempo indeterminato gli credettero in pochissimi, tanto più se a distanza di pochi mesi diede alla luce quel Drop, convincente ma non a livello dei precedenti album, con diversi brani meno incendiari del solito. Così, complici vari cambi di line up e un trasferimento da San Francisco a Los Angeles, ritorniamo a parlare dei Thee Oh Sees, dando ragione agli scettici e celebrando la prolificità di Dwyer. Spesso molti grandi artisti sono caduti nell’equivoco di registrare una quantità sproporzionata di musica, eccedendo a volte nell’auto-indulgenza, compromettendo la qualità in favore della quantità, fortunatamente non è questo il caso, anche se con maggior ponderazione si sarebbe potuto evitare qualche riempitivo di troppo.

Mutilator Defeated At Last convince sin dall’inizio, seppur con una produzione un filo più patinata del solito, entusiasmando sia il fan di vecchia data sia chi si addentra per la prima volta nell’universo onirico di Dwyer&sodali. L’opener Web mette subito le cose in chiaro: chitarre distorte, basso pregno di fuzz e la batteria di Nick Murray schifosamente groovosa, con la voce sussurrata e impastata di Dwyer che esplode prima di ogni ritornello: whoo! Lupine Ossuary prosegue la saga dei licantropi, già iniziata in Putrifiers II con Lupine Dominus, aggiungendo un’overdose di steroidi al pezzo. Se la prima metà dell’album si conferma come la più muscolare ed esplosiva con episodi che sfiorano il doom come Withered Hand e la spensieratezza seventies di Turned Out Light, è la seconda porzione di Mutilator a farci addentrare nell’odissea psichedelica più intima e profonda della band, con la lunga jam di Sticky Hulks che ci accompagna in un delirio di sei minuti dove l’organo e il fuzz la fanno da padroni; Palace Doctor tradisce le influenze kraut e surf-rock di Dwyer, che non nega di aver ascoltato fino alla nausea Tago Mago in giovane età. Holy Smoke è poi l’intermezzo acustico che non ti aspetti.

Parafrasando Pound, se ogni manifestazione artistica nasce dall’insoddisfazione personale, non possiamo che augurare a John Dwyer eoni di infelicità. Pur non raggiungendo le vette creative di Carrion Crawler e l’immediatezza di Floating Coffin, Mutilator Defeated At Last rappresenta un piccolo bignami del repertorio musicale della band di Los Angeles, che senz’altro soddisferà i palati degli ascoltatori di musica psichedelica, garage e shoegaze.

Tracce consigliate: Web, Palace Doctor.