Negli anni ognuno di noi ha sicuramente stilato, anche solo mentalmente, una lista di artisti intoccabili ai quali deve tanto nella vita: da un banale ‘loro sono stati la colonna sonora del mio primo amore‘ a qualcosa di più serio come ‘i suoi testi mi hanno fatto vedere la vita da un punto di vista che neanche sapevo esistesse” e via dicendo.
Gli Strokes sono proprio una di quelle band che compaiono nella lista di tutti coloro che hanno avuto una fase indie nella propria vita – meglio ancora se nati tra l’85 e il 95 (anno più, anno meno, su).

È il 2006: hai così tanta bava alla bocca – per ciò che furono Is This It e Room On Fire – che te ne freghi se First Impressions f Of Earth non è poi così superlativo come speravi. Ma non fa niente: gli Strokes hanno comunque fatto un buon lavoro. Allora aspetti altri 5 anni per raggiungere un orgasmo forzato tra Under Cover Of Darkness e Life Is Simple in the Moonlight e accetti la svolta 80s/synth della band, anche se non sei per niente soddisfatto: agli Strokes glielo perdoni perché “c’hanno provato, si rifaranno”. E dopo due anni i cinque newyorkesi tornano con Comedown Machine: 40 minuti di cui non ti rimane niente, né in testa, né in una playlist. Anzi Chances te la salvi, perché sai che un giorno gliene darai un’altra, di opportunità.

Quel giorno è oggi, 7 anni dopo l’ultima volta. Gli Strokes tornano con il loro sesto album in 19 anni. E tu hai ancora la bava dei primi due album, te ne rendi conto?

The New Abnormal si presenta sin dai singoli di lancio come il nuovo capitolo del secondo libro della carriera degli Strokes: quello iniziato con Angles, alla ricerca di un nuovo da dare alla loro musica; la stessa ricerca che da 11 anni seguite attraverso i lavori di Julian – tra i The Voidz e l’album solista del 2009.

Il nuovo album sembra esser stato pensato come un mix di omaggi alla musica rock più ‘classica‘ d’oltremanica, a cavallo tra i 70s e gli 80s. Ma più che veri tributi a ciò che è stata – per loro – la musica di quegli anni (And the eighties bands, oh, where did they go?), i brani risultano, nell’insieme, come una compilation di rifacimenti pop-rock di questi, al limite della cover.

I riff delle chitarre ripercorrono gli anni d’oro del synthpop britannico (dai Visage agli Psychedelic Furs) e della new-wave in Bad Decision (una cover non riarrangiata di Dancing with Myself di Billy Idol e Melt With You dei Modern English). La parte ritmica di Albert Hammond Jr. invece ripropone le chitarre dei Pink Floyd di The Wall (Eternal Summer e Why Are Sundays So Depressing?).
Ode To The Mets dal suo canto vuole essere troppe cose: nasce come brano pop da classifica (la sentite Left Outside Alone di Anastacia?) per morire lentamente in un inno John-Lenniano per il prossima ritrovo del Band Aid.

La restante parte dell’album riprende, a grandi linee, sonorità e melodie di vecchi brani degli stessi Strokes, semplicemente reinterpretati in chiave più moderna. O almeno quello è l’intento. Le cadenze nel ritornello di The Adults Are Talking le troviamo nelle vecchie Hawaii e I Can’t Win e Brooklyn Bridge to Chorus è l’ennesimo episodio di un Julian Casablancas confuso quando si mette a giocare con i synth – ricordiamoci 11th Dimension.

Si salvano giusto un paio di melodie suonate bene, come la ninnananna del ritornello di At The Door (che rimanda alla nostalgica Ask Me Anything) e Not The Same Anymore che, nonostante il titolo, è il solito pezzo à la Strokes che abbiamo sempre amato e per sempre ameremo, ma in un album del genere conferma che non ci sia un idea così forte capace di trainare il carro, guidato da Rick Rubin in produzione e un Casablancas smarrito anche sul fronte delle liriche, divise tra nostalgia pre-successo, nostalgia della musica anni ’80, poteri forti, la relazione col padre, un tributo a New York e via dicendo.

Sono 10 anni che per un motivo o per l’altro perdoniamo qualcosa agli Strokes, appunto perché sono una di quelle band intoccabili. Ma se non vi era bastato Comedown Machine, con questo disco vi accorgerete che la band sta vivendo di rendita da almeno 10 anni. Ma d’altronde è quello che ha sempre sperato Albert Hammond Jr., no?

It would be cool if 20 years down the line from now. […]
People would still be talking about what “good music they made”.
That’s much cooler than any cover, or anything.

Tracce consigliate: Not The Same Anymore