11183_JKTEtichetta: Captured Tracks
Anno: 2015

Artisti consigliati:
Staccato du MalSin Destino
Soft Kill – An Open Door
GatekeeperGiza

2010, California: la Captured Tracks non si fa abbagliare dallo splendido sole e dalle ragazze sexy in bikini ed adocchia, nel brulicante marasma di artisti garage e surf, l’oscuro progetto di Luis Vasquez, The Soft Moon. Quello stesso anno esce il primo album omonimo che da subito definisce lo stile del progetto: noise, industrial rock, dark wave, industrial di nuovo, post-punk, neo-psych e forti echi da quegli anni ’80 a tinte fosche: tipo… tipo John Cusack? No. Come i The Cure di Pornography, i Cocteau Twins di Garlands, i Clan of Xymox dell’album omonimo, Bauhaus, Joy Division, Depeche Mode (ai quali ha aperto dei concerti nel 2014) e tanti altri.
Voce distorta, testi urlati o sospirati, chitarre efferatissime, basso corposo ed ossessivo e sintetizzatore diventano strumenti costanti di un personale rituale che l’artista riporta fedelmente in musica: l’ep Total Decay (2011) e Zeros (2012) lo dimostrano, sono incubi (positivamente parlando) in note.
Chissà poi per quale strana ragione (forse ha fatto confusione tra Venice (CA) e Venice (IT)) invece di lavorare all’ombra delle palme Vasquez si è ritrovato a produrre il suo album a Venezia sotto il campanile, una Sewer Sickness in versione nostrana, ma non s’è fatto distrarre dalle bellezze che la venue aveva da offrire (il vino e l’arte, ma soprattutto il vino) ed ha scritto “in total solitude” il suo ultimo lavoro Deeper.

Il cambio di location non va inteso come un mutamento a livello stilistico: i suoni che hanno contraddistinto precedentemente la produzione dell’artista sono qui visibili e riconoscibili ma ricaricati di una nuova liricità atta a rappresentare le sue lotte interiori e la sua vulnerabilità; quest’ultima non viene nascosta, bensì è espressa chiaramente. Un’”esorcizzazione” di quei demoni radicati profondamente nello spirito di un uomo, un uomo che fatica ad accettare l’esistenza nella sua brutalità.
Non ci sono inizi tranquillizzanti, non ci sono ammortizzatori: è un’immersione totale, sin dalla prima estraniante traccia. In Inward l’inconscio si unisce alle note, il primo fagocitato dalle seconde, facendo scattare il coinvolgimento totale, un oppressivo distacco da ciò che non è introspezione, indagine nei regni di ansia ed angoscia: ha inizio un’implacabile meccanismo d’identificazione focalizzato a quella regione oscura che tanti hanno paura ad affrontare.
Black sembra un arto della traccia precedente, è un incubo industriale: i bassi sono martellate al cervello, i synth alienanti, la voce (ricorda vagamente quella di un giovane Trent Reznor) è un sussurro lontano, l’ultimo baluardo d’umanità in un quadro strumentale dal sapore Langiano.
Synth e basso, più tenebrosi di sempre, aprono delle tende scarlatte immaginarie alla chitarra più “catchy” dell’ultimo periodo Far: “Take me far away to escape myself, I was born to suffer, and it kills my mind” sono le prime parole che udiamo pronunciare dalla chiara voce del cantante statunitense, poco spesso udita nella produzione passata.
In questo album più che in tutti gli altri si nota la forte volontà ad esprimersi a parole, oltre che in musica: i testi sono diritti come frecce, non ci sono significati simbolici, tutto si presenta per ciò che è o nell’essenza di ciò che vorrebbe essere (che piaccia o meno) questo è il modo nel quale l’artista vuole presentarsi come viene detto in Black: “I don’t care what you say, live my life in my own way”.
Wasting è la traccia nella quale compare, più forte che in altre, una forte maturità a livello mentale (e strumentale): é il desiderio di soffocare quella voce che dentro di te nel tentativo di quietare la paura che tutti hanno dello sprecare tempo, ti riduce all’inazione. Ci sono i suoni più riconoscibili degli album precedenti: chitarre, basso, percussione e voce hanno il sapore del The Soft Moon del 2010, ma con una nuova consapevolezza e liricità che la rendono la traccia più “confortante”, a gravità zero, dell’album.
Ma come in un racconto nel quale si crede d’aver trovato la pace ecco che arriva Wrong la traccia “techno” dell’album nel quale Vasquez duetta, si fa per dire, con una voce robotica che demolisce qualsiasi cosa lui dica: “I’m in control my existenceYou’re Wrong”. Traccia alienante eppure irresistibile.
Try così meccanica e fredda, l’unico elemento di calore è dato dalla voce sospirata che ripete come un mantra “The only chance I got, surrender in my mind […] The end is on my mind”, ha lati shoegaze che la rendono calda eppure ecco, ecco quel synth così dark-wave e quella chitarra che si elevano a sacerdoti: testimoniano un difficile cambiamento in atto, la consapevolezza che tutto quanto è nella propria testa, non c’è niente di oggettivamente reale, un male auto-inflitto.
Without ha l’effetto del mare sereno dopo la tempesta, così semplice ed onesto con l’accompagnamento al piano e synth, dove la voce melanconica sembra un eco Buñueliano di estrema solitudine contro l’infinito: che siano amori scomparsi, che sia una voce che cerca di raggiungere una parte di sé… non importa, ha dentro tutta la morsa delle assenze nel cuore “without you in my heart, still feel you within, with out you by my side”. E’ difficile non ripensare a Dead Love (“Don’t leave me all alone”) o di When it’s over che per semplicità ed effetto erano allo stesso alto livello, rendendo presagibili i risultati di Without.
Deeper è quella sfumatura tribale della quale non si poteva fare a meno, nonostante sia già presente in altre tracce dell’artista (vedi Want) qui ha un potere estremamente catartico, è come presenziare ad una cerimonia ancestrale attorno al fuoco di consacrazione a se stessi.
Being infine, una chiusura che toglie il fiato: “I can’t see my face, I don’t who I am, I can’t see my face” nonostante l’artista sembri non avere un’idea chiara di sé, di chi sia, quel che ne viene fuori è un manifesto artistico ben definito: una traccia incredibile, dove la voce si trasforma in un lamento romantico, quasi come il canto una sirena (tritone?) che ti costringe a tornare più e più volte sulla canzone solo per sentire quel richiamo, basso, chitarra e synth che come sempre danno il meglio di sé con i loro echi oscuri, trascinandoti in un buco nero senza scampo, ed ecco che quelle note che ti hanno trascinato dentro questo album ti rispuntano fuori masticato.

C’è un assioma profondamente sbagliato alla base della musica: tutto è divisibile in generi. Come se ogni brano/album/artista potesse essere tagliuzzato su un asettico tavolo operatorio per poterne estrarre tanti organi: il pop, la psichedelia, l’industrial. Questo non avrebbe senso in un album fatto di “stati d’animo” e che, nonostante la piega più “democratica” presa (dato che sembra indirizzato ad un pubblico di persone più vasto), ha tantissime emozioni da trasmettere: prendere per mano la propria solitudine e farne la propria cifra, questo è ciò che ha fatto, egregiamente, Vasquez in Deeper.

Tracce consigliate: Far, Without, Being.