“Due anime abitano nel mio petto, l’una si vuol separare dall’altra”.
Kevin Martin è come pronunciasse le stesse parole misurando, e distintamente distinguendo, le sillabe che compongono il grido spezzato del Faust di Goethe. Angels & Devils è il suo poema drammatico, e racconta della stessa ambivalenza e dualità vissuta dal medico-teologo tedesco. The Bug torna così, dopo pressappoco sei anni dall’uscita di London Zoo: permane il lineamento grime e le collaborazioni concorrono a definire la sagomatura di Angels & Devils, poi Martin è ancor più collerico e fegatoso. Pare tuttavia che anch’egli, come Faust, abbia nel mentre trattato e stretto un patto con Mefistofele, al fine di poter accedere alle condizioni di maggiore conoscenza e perfezione del suono. Si rivela, questo, un accordo ineludibile per coloro che veleggiano nella scena dubstep, la quale sovente contempla un numero sempre più cospicuo di creatori culturali. Il terreno urban di Londra e il network delle radio pirata perdono la paternità del genere. Il negozio di dischi Big Apple Records a Croydon, a sud di Londra, e lo studio di registrazione proprio sopra la bottega, hanno ormai chiuso. Di qui vi sono passati in diversi: Hatcha e John Kennedy dietro il bancone; oltre questo, i soliti Skream, Kode9, Benga e Digital Mystikz, ovvero clienti con certe pretese. Tanta sperimentazione, insomma, dietro la saracinesca.

In particolare, e in questo, The Bug si è distinto. Kevin Martin, in London Zoo soprattutto, ha dato prova, e dimostrato, l’elasticità e l’apertura dei confini del genere nato in controtendenza culturale. MC’s del calibro di Tippa Irie o Flowdan muovono dal bashment al 2-step come fossero santoni sotto allucinogeni, e la navigata Warrior Queen potrebbe indubbiamente offrire delucidazioni circa la nozione di cattiveria a Nicki Minaj e Dizzee Rascal. Gli MC’s sin ora citati vengono tutti, tranne che Tippa Irie, richiamati all’ordine in Angels & Devils, presso il quale in realtà si registrano nuove rilevanti e ragguardevoli presenze, tre su tutte: Liz Harris – dico Grouper e dico tutto; Death Grips – anche in questo caso credo non occorra aggiungere altro; Gonjasufi – di una voce mesmerica, liberante e avvolgente.
L’album deve essere considerato come bipartito. Appunto, la dualità di cui sopra detto. I primi brani rappresentano dunque l’aspetto angelico e serafico. Si albeggia con Void, a cui presta la voce Liz Harris. Un canto cerimoniale e onirico con echi trip hop cadenzati come fossero una reminiscenza, qualcosa quasi dimenticato; ne ho il vago ricordo: Beth Gibbons. Non passa molto tempo perché l’aura si intorbidi e il basso dub si levi in un manto di effetti. Quindi Fall subito in tensione ritmica tra la bassline e rullante, e voce femminile in appoggio lo-fi di Inga Copeland. Un senso di occlusione prima, e di vuoto accordato dal wub poi, denudano il più intimo animo dubstep in Ascension. Pandi, spezzato strumentale e rigida coltre di distorsioni, disserra a Save Me: le modulazioni vocali di Gonjasufi trascinano in una picchiata densa di hascisc, tutto è meticolosamente tenuto sotto controllo. A tentoni Martin strascina la seconda parte dell’album. I restanti brani, al contrario dei primi, simbolicamente esprimono lo spirito perverso e maligno senza alcuna ritrosia. Tanto è vero che The One è immediatamente ostile e sporco, come il cantato di Flowdan e il rullante in accompagnamento. Function e Fuck You, poi, fendono con un breakbeat sincopato e molle; Manga prima, e Warrior Queen poi, tengono a denti stretti il cantato rap duro e manesco. Flowdan persiste e infligge colpi ancor più brutali in Fat Mac e Dirty. L’apice, però, è raggiunto in Fuck A Bitch: i Death Grips, è ben risaputo, scalciano e tirano pugni, ma in questo brano è un dimenarsi ancor più concitato per via dell’opprimente e asfissiante breakbeat. Dopo circa quarantotto minuti si arranca e a malapena si respira.

La scena post-dubstep ha guadagnato nel tempo, in buona parte negli ultimi anni, largo spazio. Il fenomeno raccoglie, e accoglie, un pubblico più ampio che evidentemente riempie il registratore di cassa. C’è tuttavia chi in questa storia ci rimette. Sicuramente The Bug, magari postillato come greggio o ignorato, ma che dopo decenni di produzione ha l’abilità di migliorarsi in questa e uscire con un album architettato prudentemente e con scrupolo. Non che fosse l’ultimo bardotto: produttore per poco meno di dieci progetti ha dimorato in etichette quali Hyperdub e Ninja Tune.

Tracce consigliate: Save Me, Fuck A Bitch.