Non sono solito ascoltare i singoli rilasciati come anticipazione di album tanto attesi. In realtà non so se la cosa abbia senso, ma non vorrei falsare poi l’ascolto del lavoro completo con potenziali aspettative, alte o basse che siano. Se avessi ascoltato Palace e Hotel, primo e secondo estratto da Familiars, il terzo album degli Antlers, mi sarei preparato ad essere investito da una valanga di emozioni, e da un mare di trombe eloquenti. E poi è quello che davvero è Familiars: un fluire di emozioni modellate sulla base degli stilemi del primo Hospice e del secondo Burst Apart, soppesati brillantemente in una complementarietà di resa emotiva e resa sonora, sempre fondendo chamber-pop, ambient ed emozioni. Ho già detto emozioni? L’incedere del disco è lento, ragionato, si prende il suo tempo tra fiati, fraseggi minimali di chitarra e Rhodes, batterie jazzy, falsetti e melodie vocali da crepacuore. Il fumo nella stanza è tangibile, la luce che entra dalla finestra potrebbe essere tanto l’alba, quanto il tramonto o ancora i lampioni notturni, c’è polvere un po’ ovunque, è inutile pulire tanto si ripartirà a breve, per chiudersi in un’altra bettola. Sapeste voi cosa frega a Peter Silberman se voi vi annoiate a sentire quello che ha da dire. Cosa vi aspettavate? Un disco movimentato? Per rispondere a queste esigenze c’è dell’altro. Familiars porta via il tempo con intrecci armoniosi e melodici di una ricercatezza rara, suoni caldissimi, molto più vivi e rassicuranti rispetto al passato (un sentitissimo e meritatissimo ringraziamento alla tromba). Se nel passato era lo strazio a prevalere, l’appannato presente è permeato da una speranza baluginante, una sicurezza che scivola tra le dita ma che non si vuole lasciar andare. Doppelgänger in tedesco significa “sosia”/ ”controfigura”, ma è Silberman stesso, è il suo nuovo lui che cerca di emergere nella totale consapevolezza. Egli non rinnega la naturalità di una trasformazione, la abbraccia e si lascia condurre, con la maturità sufficiente per dare uno sguardo al passato e rimmergervisi nel finale (Surrender, Refuge), non prima di aver dato in pasto al cuore un altro pezzo riuscitissimo (Parade). Familiars va ascoltato tutto d’un fiato, più di una volta, senza cercare un punto fermo. Se gli si dovesse dire per forza qualcosa al buon Peter gli si potrebbe contestare il dilatamento e la reiterazione eccessivi di alcune code o inframezzi strumentali, i quali appesantiscono l’ascolto quasi a volersi contemplare nella loro narcisistica perfezione sonora. Non c’è una svolta, un apice, un qualcosa di tanto diverso da ciò che viene prima e ciò che verrà dopo. Però funziona tutto. Comunque, sapeste a lui cosa fregherebbe. Ho già detto emozioni?

Tracce consigliate: Palace, Parade