The-Afghan-Whigs-Do-To-The-BeastAnno: 2014
Etichetta: Sub Pop

Simile a:
Mudhoney – The Lucky Ones
Dinosaur Jr. – I Bet On Sky
Mark Lanegan – Imitations

“La solita reunion di merda.”
É molto probabile che sia  spontaneamente questo il vostro pensiero in merito al nuovo disco dei The Afghan Whigs. Ed è assolutamente capibile: ne abbiamo piene le palle di gruppi, ormai più che datati, i quali dopo anni e anni di silenzio tornano insieme per convenienza, magari per necessità monetarie in seguito a sperperi di patrimoni vari in droghe e trans, col solo risultato di farsi disprezzare.  Ma per onestà va detto che non è proprio il caso della band capitanata da quel diavolo di Greg Dulli, anche se il branco si riunisce dopo ben 16 anni di distanza dall’ultimo album, 1965.

I The Afghan Whigs sono stati una delle band più importanti dei primi anni ’90, definiti pionieri del grunge, il loro sound era una miscela che comprendeva dal garage all’R&B. Greg comunque non è mai stato con le mani in mano, si è tenuto occupatissimo: in quanto leader di altre due band (Twilight Singers e Gutter Twins), e in altre vesti (pur rimanendo in ambito musicale) tra le tante, è stato co-produttore insieme a Manuel Agnelli dell’album degli Afterhours, Ballate per piccole iene.
Insomma tutto questo per far capire che il frontaman non aveva particolari bisogni né fretta di rispolverare la band con la quale si era consacrato. Sembra veramente tutto dovuto ad un amarcord.
Una riunione all’insegna della malinconia insomma, alla quale però non partecipano Rick McCollum e Steve Earle, rispettivamente chitarrista e batterista della band.
Le premesse quindi non sono troppo incoraggianti, ma invece quello che ci troviamo ad ascoltare è un disco piuttosto ispirato che suona maledettamente 90’s. Infatti l’album, dal nome Do The Beast, non risente troppo delle assenze eccellenti e mantiene lo stesso stile di sempre, anche grazie alle numerose collaborazioni al suo interno (Alain Johannes, Joseph Arthur). La prima cosa che notiamo è come l’inesorabile marchio del tempo si sia stampato sulla voce di Dully. Balza subito all’orecchio come sia appassita l’energia vocale del cantante, ma è in parte compensata dall’impegno che lo stesso ci mette, dimostrando un’abnegazione non scontata in questi casi. Immediatamente dopo l’attenzione finisce sulle chitarre, che nonostante siano orfane di Rick, mantengono il loro sound  coinvolgente e deciso che ha contraddistinto la band un paio di decenni fa.
La traccia d’apertura Parked Outside sembra un compitino poco ispirato, ma già da Matamoros la storia cambia: misteriosamente orientale con un ritornello più che mai accattivante. In seguito ci imbattiamo in episodi degni di nota come Algiers, riuscita ballata in cui Greg dà il suo meglio e Lost In The Woods, oscura e malinconica. Gran finale con la drammatica These Sticks dalla forte contaminazione prog.

I The Afghan Whigs, o meglio Greg Dully, è voluto tornare alle origini, lo dimostra anche il fatto che Do The Beast è uscito per l’etichetta che per prima li ha lanciati, la storica Sub Pop, e forse lo ha fatto per togliersi uno sfizio o forse per fare un regalo ai propri fans, ma poco importa, il risultato è più che dignitoso, nonostante il deterioramento del tempo e la mancata innovazione estetica della band.
Dopotutto aspettarsi troppo sarebbe stato utopico. Ci accontentiamo, dunque, e anche molto volentieri di questa nuova creatura e anzi ringraziamo Dully & co., i quali hanno dimostrato che pure da insperate rimpatriare può uscire qualcosa di buono.

Tracce consigliate: Algiers, Matamoros