Non so, trasformazioni del genere non le vedevamo più dai tempi di Ziggy Stardust, e probabilmente la prima cosa che salta agli occhi e alle orecchie quando si ascolta l’omonimo album di St. Vincent, stringendone in mano la copertina, è che la signorina Clark ha fatto tappa sulla terra per ricordarci che nell’universo ci sono esseri che sanno fare musica meglio di noi.
Ecco, tutto sarebbe spiegabile in questo modo, ce ne faremmo una ragione se solo questo disco fosse caduto tipo meteorite da un’altra galassia ma no, niente a che fare con questa roba.
St. Vincent al secolo Annie Clark suona come qualcosa che non si riesce a spiegare, suona come St. Vincent e basta, non è facile trovare termini di paragone o somiglianze nella sua musica come non è banale cogliere un filo conduttore nelle sonorità, proprio per questo motivo non sembra casuale la scelta del titolo dell’album. Oltre alle innate doti chitarristiche e all’innegabile bellezza di questa donna (sposami!) c’è da dire che produzioni pop di una tale genialità ed eleganza non sono affatto all’ordine del giorno.

Tutto inizia con Rattlesnake che ci mette in guardia immediatamente grazie a sintetizzatori introduttivi in stile ritmicamente Wonderiano e un “No one around so I take off my clothes, Am I the only one in the only world?” che più chiaro non si può: la giovine si sta spogliando di tutto ciò che di estetico ha la musica per trasmettere la sua creatività nell’accezione più pura possibile.
Birth in Reverse, il primo singolo estratto dall’album, non si perde in cianfrusaglie e orpelli e, dopo un brano d’apertura quasi ballabile, materializza ciò che di più terreno possa esserci in questo disco, richiamando vagamente le produzioni precedenti della cantautrice (definirla così sembra quasi riduttivo) americana.
Siamo ancora all’inizio ed è più che giusto che ci sia qualcosa a riportarci con i piedi a terra, Prince Johnny ad esempio gioca con la sua stessa semplicità, messa in musica in maniera magistrale attraverso pochi, dosatissimi strumenti ma che di fatto non ha niente di banale “Prince Johnny, you’re kind but you’re not simple”.
Il disco può prendere il largo adesso, Huey Newton e Digital Witness non lasciano spazio all’immaginazione tra l’introduzione in stile Ratatat della prima e gli innesti di fiati Byrneiani della seconda.
Come possono mancare ballate in un disco fondamentalmente pop? Ecco, difatti non mancano e sono anche di una pregevolezza che ha pochi eguali attualmente, parliamo di I Prefer Your Love e dell’ultimo brano del disco Severed Crossed Finger.
Regret è basilare, melodica e ruvida allo stesso tempo ma è con Bring Me Your Loves che il disco raggiunge l’apice, non c’è niente che sia concepibile da una mente vagamente umana ed è proprio qui che ci si convince che questa donna ha poco a che vedere con noi comuni mortali. C’è spazio per una poppata bella e buona come Psychopath, scandita da una batteria non troppo conforme agli standard (se così si possono definire) di questo genere musicale.
Every Tear Disappear  è la conferma di come non ci sia niente di schematizzato in un genere musicale così come non esiste nessuna regola, basta che funzioni, sta tutto nella capacità e nell’interpretazione di chi vi si approccia.

Dobbiamo aggiungere altro? Volete sentirvi dire che questo disco è uno tra i più belli che abbiamo ascoltato finora? Non c’è niente che si possa recriminare ad un’artista del genere soprattutto con 40 minuti di un tale livello. Cosa possiamo aspettarci in futuro da St. Vincent non lo sappiamo, ma la facilità con cui sforna dischi di questa portata è imbarazzante per chiunque e noi possiamo solo augurarci di ascoltare ancora musica del genere nella speranza che qualcuno riesca a fare meglio di lei, impresa non del tutto facile per l’eventuale concorrenza.

Tracce consigliates: Rattlesnake, Digital Witness, Bring Me Your Loves