Da quando hai appoggiato il basso e lo lasci li a far niente, mi hai fatto solo incazzare. Purtroppo sono le parole che continuo a ripetermi in testa, caro Squarepusher. Capisco che arrivati al quattordicesimo album non si possa fare sempre la stessa cosa…che poi la tua stessa cosa è un attimino non replicabile, e te lo dice uno che ti considera pure un genietto. Ma proverò a parlare nella maniera più oggettiva possibile di questa ennesima evoluzione.

Damogen Furies è nero, nerissimo. Una continua e frenetica discesa verso gli inferi, intermezzata da alcuni spiragli di luce. La metamorfosi che abbiamo intravisto timidamente nascere nel precedente Ufabulum (un lavoro non cosi’ esaltante, ma neanche da buttare via) raggiunge finalmente qui la sua forma pressochè definitiva. Gli strumenti suonati oramai sono lasciati lì tranquilli a prendere polvere: a quanto pare Tom Jenkinson si è rotto le palle di suonare cosi’ bene il suo basso e si è circondato da una bella schiera di synth pronti ad attaccare senza pietà.

A dir la verità, il primo ascolto colpisce e non poco, un po’ come succede abitualmente con i lavori di Squarepusher. Lo stile è sempre lui, con un piglio notevole inacidito ed aggressivo. Impossibile includere il buon Tom in qualche filone/genere elettronico esistente, quindi proviamo a descrivere questo ennesimo stadio in un modo alternativo?
Il sound di Damogen Furies verte ad un futuro che sa tanto di passato: siamo nel bel mezzo di una corsa di Wipeout 2097, e tu sei seduto sul divano con il tuo joystick in preda quasi ad una crisi epilettica. Mentre stai giocando ti accorgi che la colonna sonora è obiettivamente qualcosa di mostruoso e supereccitante che influenzerà il tuo percorso musicale per tutta la vita: Photek, Future Sound of London, Leftfield, Orbital e gli altri sono lì nel tuo salotto con l’obiettivo di farti girare il cervello di schiena. Per dare un suono a questa immagine, basti ascoltare Kwang Bass ed assistere al gioioso rifiorire dall acid-trance anni 90. Il tutto viene rielaborato nella propria visione schizoide e frammentata che lo contraddistingue da due decenni.

È questo il mood, a volte invaso da alcune inaspettate e sporadiche ventate pop: l’apriprista Stor Eiglass è il connubio perfetto, con una tastiera paradisiaca che disegna un motivetto che è più di un “gia sentito”, chiamate Robert Smith per ulteriori delucidazioni.

Cosa non funziona allora in Damogen Furies? Che sembra di essere fermi sempre sulla stessa idea, sullo stesso suono, per quanto le composizioni del buon Tom appaiano sempre complesse e ricercate. E per quanto possa piacermi e far scendere la lacrimuccia questa nuova metamorfosi che va a riabbracciare tempi a me tanto cari in cui gli LFO producevano questo tipo di sensazioni, ciò che si sente mancare qui è la libertà musicale a cui il progetto Squarepusher ci aveva abituato tempo fa.
Oggi scrivo solo ad esempi, ma lo avete mai ascoltato Ultravisitor? Vi ricordate la fatica che avete avvertito a capirlo e il piacere di riuscire ad apprezzarlo in ogni singola, schizofrenica nota? Sento che è quello che manca in Damogen Furies: perchè la mente che lo ha generato è sempre ben chiara alle nostre orecchie, ma il nuovo volto sintetico ed acido fatto di paesaggi futuristici/retrò ne limita le capacità.
La cosa buona è che Squarepusher è una creatura indecifrabile ed instabile: ti attendiamo, sempre con piacere, al prossimo giro.
(Ed io, mi rimetto in cuffia Hard Normal Daddy e Ultravisitor, giusto per avere qualche dolce crisi).

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