Perché qualcuno dovrebbe ascoltare la musica indipendente? Più che per fare i tipi cool e giusti, per aver la possibilità e l’onore, come successo a me e molti altri fan, di seguire la crescita e lo sviluppo di una band durante il tempo e di poter conoscere, intrattenere discussioni anche con i musicisti a fine serata ,con una birra in mano quando capita. Tutto ciò che con le band belle e sfornate dalla Macchina non è possibile fare.

Beh un paio d’anni fa mi capitò questo gruppo, vuoi per la fase politica sinistroide tipica del liceo e il periodo di primo amore con i Joy Division, leggere quel nome, Soviet Soviet, e poi sentire quel basso devastante furono un colpo al cuore. Cercai tutte le loro uscite nei blog più inculati del web e alla prima occasione mi feci 40km per vederli. Altra tachicardia. Poi parecchie e parecchie altre volte ho potuto rivederli senza mai annoiarmi. Perché per chi non l’ha mai visti, sul palco si scatena un energia unica, in parte dovuta alle acrobazie da Nadia Comaneci dell’adriatico di Andrea Giometti (basso e voce) e per i volumi aggressivi di tutto il set.

Insomma, introduzione fatta, questi ragazzi divisi tra Pesaro e Fano dopo aver lasciato in crescendo un numero sempre maggiore di pezzi per release (s/t EP, lo split con i Frank Just Frank e l’ultimo Summer, Jesus) sono arrivati al primo LP. Sembra strano pensare che solo dopo tutto questo tempo abbiano rilasciato un album. Sono in attività da un bel po’ e non si può dire che siano sconosciuti, a confermarlo i continui tour all’estero, dove manco a dirlo vengono supportati meglio e con più calore che da noi, il paese del pubblico zombie. Fate, finalmente s’appresta a intasare le mie cuffie di chorus, riverbero e quei cazzo di sedicesimi di Ferri (batteria) che me li sogno la notte.

Ecstasy ha l’onore di aprire l’album. E come si poteva aprire il pezzo se non con la batteria che sembra una bomba a orologeria. Si era avuto modo di ascoltare il pezzo in sessions acustiche online o nel mezzo delle scalette dei live già da parecchio tempo. La melodia la ricordavo molto bene, il testo un po’ meno. Erano stati rimproverati da Pitchfork per un inglese non proprio perfetto ma nel continuo dell’album potranno ricredersi. 1990 è stato il primo singolo estratto da Fate. La linea di basso ricorda la loro Contradiction poi entra la chitarra che piange avvolta nel riverbero di Alessandro Costantini (chitarra) ed ecco ricreata la magia dei SS. A proposito del testo, la traccia si conclude con quella che sarà una delle frasi che rimaranno imprese nelle menti degli ascoltatori. Don’t be afraid for me/The enemies will leave the ground/The sand I left on the desk/Will be the sun you never saw.

Introspective Trip, tra una tremolante chitarra e un basso sporchissimo, forse in secondo piano per la prima volta nella storia dei Soviet, aprono a uno dei due stacchi/climax più belli della loro discografia. La chitarra non trema più diventa quasi un urlo, disorienta, stordisce, la voce di Andrea ci guida dentro questa nebbia, che nei live potete vivere anche visivamente, di colpo finisce tutto. Parte il pattern di Further che insieme a Together forma la coppia di pezzi ballabili, sì avete letto bene. Farebbero la loro porca figura in un bel club dark insieme ai tanti pezzi di The Soft Moon.

Dopo la ballabilità i Soviet ci sorprendono ancora con Gone Fast. Uno dei brani migliori di Fate. E’ per certi versi meno aggressivo guardando allo standard sovietico. Con questo pezzo i Soviet Soviet si rivelano come i Nirvana del post-punk. Se la band di Cobain ha avuto il pregio di portare pezzi pop (fondamentalmente questo erano i loro brani) in chiave violenta, tutta distorsione e rabbia repressa, la band di Pesaro con chorus sul basso, riverbero e sedicesimi si dimostra capace di produrre un brano che entra subito in testa. Già cantabile dopo il primo ascolto e se posso rubare le parole di Andrea Guagneli (Brothers In Law) una canzone come questa, che, dopo due ascolti, sembra già la colonna sonora della tua vita.

No Lesson invece racchiude in sé l’altro stacco più bello dei SS. Senza tralasciare un testo, interpretato da ognuno in maniera diversa, pare raccontare un rapporto tormentato di cui però si capisce in fondo, l’importanza, l’importanza di esserci. E quindi,  lo stacco, eh io quando sento l’accordo di Alessandro e quella batteria che apre la sua potenza piano piano, boh, ho un brivido. Thank you so much, for your help. Hidden parla ancora d’emozioni, una cosa che non avevo mai potuto notare in pieno nei precedenti pezzi. Andrea se hai fatto un corso di inglese o quello che è, ti ringrazio, di cuore. Cuore che viene messo a dura prova ancora una volta nella doppietta senza possibilità di scampo Something You Can’t Forget e Around Here che mi lascia solo quei dieci secondi di chitarra prima della cassa, tanto per non rischiare il collasso cardiaco di fronte al pc. Ancora una volta si assorbe l’emotività che i testi hanno inglobato.

Se una volta sentivi i SS per caricarti a mille ora puoi anche metterli su per emozionarti, pensare a qualcuno, andare sotto la terrazza di qualcuna e sfondarle i vetri con l’onda d’urto di una linea di basso a caso di Fate. Un album che appena finito di ascoltare, posi le cuffie, rimani interdetto per un paio di minuti buoni e non sai come reagire. Ti verrebbe voglia di prendere un regionale e andarli ad abbracciare, perché come ho detto (una volta sola, forse troppo poco) sono italiani.

Ascoltate quest’album, caricatevici, emozionatevici e create/firmate una cazzo di petizione per far diventare Pesaro capitale d’Italia. O quantomeno fateci un pellegrinaggio per capire che roba c’è nell’acqua del rubinetto in grado di far uscire tanti ottimi lavori da un solo posto.

Tracce consigliate: 1990, Gone Fast, No Lesson