“La techno è un errore totale. Come George Clinton e i Kraftwerk chiusi insieme in ascensore”. Ho scelto di cominciare con questa celebre, ormai svincolata, e spesso abusata citazione di Derrick May. In realtà, mi sento di aggiungere, la forbice è ancor più ampia e larga. Se per Manchester e la new wave c’è stata la Factory Records e soprattutto Tony Wilson, per la parabola parallela c’è stata Detroit e Neil Rushton. Per certi versi la novella è diversa, ovviamente i personaggi non sono gli stessi, e i generi possono sembrare poli estremi di un continuum che per sua natura intrinseca impedisce che questi possano incontrarsi. Eppure il lasso di tempo è grosso modo il medesimo, e le tradizioni culturali di riferimento portano entrambe il riverbero di un passato che ha un sapore aspro. Provando però a far coincidere e sposare le cose, l’esperienza Second Summer of Love non si sarebbe probabilmente mai espressa in Gran Bretagna se qui non vi fosse arrivata l’intonazione acida statunitense. Così i New Order non avrebbero nient’affatto prodotto Blue Monday e, di riflesso, i Kraftwerk compiuto l’opera di proselitismo che ha trovato adepti anche presso le distanti Chicago e Detroit. Se inoltre i Funkadelic, o i Parliament, non fossero mai sorti, e George Clinton avesse continuato a fare il barbiere, senza dubbio conosceremmo una musica house dissimile e priva dell’animo afroamericano funky. E, indubbiamente, di rimbalzo, Juan Atkins non avrebbe acquistato il primo sintetizzatore dopo aver avuto una visione onirica ascoltando i Parliament. Di conseguenza i Cybotron, duo composto dallo stesso Atkins e Richard Davis, non avrebbero dato alla luce il primo vero album techno Enter; ed Enter, permettete, non riporta ai Kraftwerk? Perché, poi, tornando a quanto detto poco prima, non si dovrebbero considerare L’Haçienda e il Warehouse come eterozigoti? E se Neil Rushton non si fosse interessato del vocio proveniente da Detroit e non avesse incontrato Derrick May e il prima citato Atkins, cosa sarebbe successo? Cosa, invece, è realmente accaduto? Techno! The New Dance Sound Of Detroit.

La techno si abbottona ai tempi, agli stilemi del progresso quantitativo e qualitativo in campo tecnologico avvenuto nel ventesimo secolo. Ambiguo e criptato rimane questo un genere indecifrabile e indefinibile, il quale definisce un mercato ristretto e lontano da prodotti semplificati. La prospettiva futurista, e molto spesso fantascientifica, apportata dai mezzi di produzione digitale, limita con il passare del tempo i confini con la musica house giocando a favore della maturità del genere: più noise e industrial, meno suoni campionati e tappeti armonici. Il post-umano e l’alieno, argomenti cari anche ai più volte detti Kraftwerk, designano i lineamenti dark del genere techno. E tali caratteri, ancor oggi, ne sono il tratto distintivo. La fredda e rigida Svezia si presta a campo fertile per il suono spigoloso e adunco. Adam Beyer e Joel Mull ne sono qui i promotori e, ormai noti presso la scena, possono essere eretti a chiara immagine di quanto appena detto. Tuttavia, come un sibilo insistente, vi è chi nella penisola scandinava realmente, che non si fraintenda, fa produzione e sperimentazione, prediligendo l’anonimato alla popolarità. C’è chi, insomma, ancora affascina e disorienta per l’eclettismo.

L’enigmatico e sfuggente soggetto in questione è il duo SHXCXCHCXSH. L’identità anonima è, come ben si può comprendere dal nome, espressamente voluta. Poche releases e due album all’attivo in due anni. A scanso di equivoci, che si puntualizzi: l’etichetta di riferimento è Avian. Il 2014 si rivela, per il duo, alla portata dell’orizzonte di aspettative che è stato precedentemente costruito attorno all’album di debutto STRGTHS. Quest’ultimo aveva lasciato una fitta e densa nebbia, texture gothic e colpi dritti. Gran bell’album, si era detto. Tutti, però, ci si scrutava increduli e attoniti. Neppure un anno ed esce una nuova produzione, VVVLLLLVVV, probabilmente col fine di svelarsi pian piano. Il suono è sempre avvolto in un’angosciante coltre di sub-bass e cluster estesi. L’istantanea è ancora in bianco e nero, ma Linear S Decoded, l’ultimo e secondo album, verosimilmente muove in direzione di una squadratura dei lembi. Immediatamente ci si accorge della più evidente inversione di tendenza: ora si parla chiaro, e non vi si rintracciano più infatti eufemismi o lo sconclusionato affastellamento di lettere. L’opener Entering The S – Cloud prepara, come già un anno fa aveva fatto SLVRBBL in STRGTHS, a scritture noise e sinistre presenze che scivolano lungo le pareti. Passaggi oscuri e inaccessibili sono disegnati da kick drums dritte e da un broken beat molesto (Drain This Lord, A Sunny Day In Ostrogothia, This Hmming Raverie). Tuttavia Linear S Decoded, rispetto a STRGTHS e alle produzioni passate, presenta una plurivocità di suoni e variazioni armoniche. Vi è tanta oppressione e prostrazione psichica, per esempio, in Helical Dialog e in Sub Mission – The Atlantic Vision. Così come si registrano lineamenti techno dub in Wading Guise e in The Under Shore. Lo stridore di denti in Elocution è poi la punizione inflitta dal brusio in The Roots. Sferraglia, più tardi, Rudimental Retreat, e non placa il moto sincopato dei battiti sfalsati e punteggiati. Occorre attendere le torbide e macabre strutture dark e industrial di Monolithic Conclusion per cogliere l’ostinata fermezza di quell’identità che rimane celata dietro rughe annerite e incupite.

Questa è una storia. Un racconto di largo respiro emotivo e forte presa che andrebbe raccontato a tutti. Linear S Decoded fa brillare gli occhi agli stimatori del genere techno, il quale rimane una forma a sé, tenuta sotto naftalina e custodita gelosamente perché figlia di tumulti, crisi e ostracismo; emerge come il contrario, come avversa e ostile all’orecchio. È quella operazione sartoriale di ricostruzione del tutto condotta dall’anonimo demiurgo che, come Odisseo, risponde solo al nome Nessuno.

Tracce consigliate: Drain This Lord, A Sunny Day In Ostrogothia.