Cercare, nello spazio di una recensione – e dunque in misere righe -, di fermare e scrutare l’idea tematica che ricorre con frequenza, spesso con insistenza, nella produzione musicale dei giorni nostri, può risultare un’impresa ardua: del genere techno, che con ogni probabilità è il leitmotiv, il fil rouge col quale si è cucita la maggior parte della tela musicale in circolazione, finora si è riusciti a dare solo una definizione minima. Rispetto a quest’ultima, provare a riunire un simposio di teorici e accademici musicali che mettano a tema la questione – “To define techno” – al fine di scovarne una prospettiva più ampia, sarebbe cosa impensabile, e forse anche un tantino buffa. Allo stato delle cose, del genere techno ne rimane la definizione “4/4”: i romantico-idealisti tedeschi direbbero che questo può dirsi “lo spirito dei tempi”.
E un altro romantico, in una certa misura forse anche idealista, sicuramente tedesco, specificando aggiunge: “quando vado in Italia o in Spagna, o da qualche parte nell’est o nel sud, so che non posso nascondere la cassa all’orecchio di chi ascolta per più di due minuti. Dopo un minuto, infatti, mi chiederanno dove è finita e quando torna […], ma con altri tipi di audience sono più speranzoso e credo di riuscirci”.

Tra il Berghain e la residenza Monkeytown c’è solo la Sprea, il fiume che taglia in due Berlino. Il tragitto a piedi da un punto all’altro è indicato per chi sopporta la fatica e, per questo motivo, la sosta in un bäckerei è d’obbligo. Da questo, spiandola al risveglio, Berlino è come ogni mattina la giunonica donna dai tratti ora isterici e poi, un attimo dopo, gentili.
Poiché partorito dalle contraddizioni della stessa donna, The Final Experiment – l’ultimo e quarto album di René Pawlowitz, a Berlino (e non solo) noto come Shed –  allo stesso modo tiene in sé, e insieme, momenti di schizofrenica euforia e di piacevole concitazione. Inoltre, figlio dell’inesorabile bipolarismo berlinese, The Final Experiment preserva con paranoica premura l’ingombrante passato, abitato tra Hard Wax, Ostgut Ton e i 90s breakbeat, e vive il presente con l’ossessiva preoccupazione di non ricadere nella tentazione di accentare in 4/4.
The Final Experiment, tuttavia, non perde certo “la piena energia e il pieno vigore” raggiunti con Shedding The Past e – come l’energia nascosta sotto la morbida pelle della giunonica donna non si attenua con lo sbiadirsi a sera dei tratti di matita nera sugli occhi – break che per il loro carattere metricamente ordinato sembrano scoloriti (ER1761) non perdono in termini di intensità e mostrano tutta la loro forza fino ad obbligare le gambe gonfie a rimanere ben salde al pavimento (Flaf2).
Se l’ouverture (Xtra) e la mite traccia ambient a fine (System Azac) possono portare alla luce fragilità di cui non si era mai sospettato – che emergono come verità urlate dalla giunonica donna nel momento del dormiveglia -, The Final Experiment riesce comunque a mantenersi dritto come il filo col piombo all’estremo (Black Heart). Tale disinvoltura non sfocia mai nell’arroganza di The Killer, ma porta lo Shed di The Final Experiment ad adottare degli espedienti che ancora una volta ne evidenziano il genio: le sottili linee armoniche, il basso british, e ancora l’animo breakbeat, edulcorano le pause sbiadite e la pallida techno (Outgoing Society, Extreme SAT, Taken Effect, Turn 2 Turn), avvolgendo The Final Experiment in un seducente e provocante velo nostalgico.
Lo stesso accade alla giunonica donna, la quale addolcisce i suoi contrasti intestini con l’inestimabile bellezza d’animo. Tanto che chi è aggrovigliato tra le lenzuola del letto di questa, seppure sia più o meno conscio delle sfumature che la donna può assumere, si arricchisce dei sentimenti tristi e piacevoli dai quali la donna è definita. E gli stessi finiscono per diventare il suo più ambito e carnale desiderio.

The Final Experiment non rappresenta di certo il soave canto del cigno muto ormai prossimo alla morte. Ma anzi, l’ultimo lavoro di René Pawlowitz, sembra portare in sé le parole di Gene Wilder in Frankenstein Junior: “Io solo sono riuscito a scoprire il segreto di infondere la vita, macché, anche di più: io, proprio io, sono divenuto capace di rianimare nuovamente la materia inanimata!”. “Si… può… fare!”: per mezzo di qualche gradevole sortilegio, lo Shed di The Final Experiment rianima il genere techno e noi tutti da tempo immersi in quello spirito dei tempi – in quello Zeitgeist direbbero i romantico-idealisti tedeschi – ormai divenuto claustrofobico.

Tracce consigliate: Extreme SAT, Turn 2 Turn.