La mia vicina di casa sta facendo lavori di ristrutturazione da una settimana e vedendo tra le nuove uscite quest’album ho pensato bene di trovare una scusa per ascoltarmi tutta sera qualcosa che rompesse i coglioni quanto il suo trapano nella mia parete alle otto del mattino. Conoscendo chi sta dietro a questo side project non potevo sbagliarmi, il duo Sarin Smoke è infatti composto dai chitarristi Pete Swanson, ex-Yellow Swans e da Tom Carter dei Charalambides, insomma non proprio gli ultimi arrivati nel mondo del “rumore”.

Dopo aver pubblicato nel 2007 Smokescreen, LP passato praticamente inosservato, Pete e Tom sono tornati con Vent, un album dai toni decisamente più carichi e nitidi, denso di droni taglienti come lame e insane stasi psichedeliche. Non appena faccio partire il disco, l’ascolto non può che riportarmi alla mente una versione esasperata del progetto chitarristico dei fratelli Gibbons, i Bardo Pond. In effetti Vent era un titolo familiare, l’avevo già sentito da qualche parte, inizio a fare mente locale, ma niente. Dopo il primo ascolto, preso dal sound mi metto ad ascoltare su iTunes qualche canzone tra i miei album dei Pond ed ecco la rivelazione, Vent è la traccia che precede la lunga suite conclusiva Amen nel loro primo lavoro, quello che avevo apprezzato di più: Bufo Alvarius, Amen 29:15. Semplice caso o riferimento espicito?

L’album, che si basa sul concept del “respiro”, apre sotto l’egida di Swanson con Atmen Ein (inspirare), aspro componimento per brusii e distorisioni, mentre un fuzz insistente corrode il suono come dell’acido, tutto in un costante stato di overdrive. Con Upsound e Pranayama diventa più evidente la mano free folk di Carter e le atmosfere si fanno più dolci, dove uno strato di feedback annebbia progressivamente delle armoniche, fino a farle scomparire del tutto. Le intuizioni del duo vengono spinte alle estreme conseguenze nella claustrofobica Black Mercury, nella quale il fuzz lascia pochi momenti di respiro, soffocato da una perenne saturazione. La title track ci trasporta in uno stato catatonico alla Supreme Dicks, accompagnati da intrecci disarmonici e distorsioni svogliate, beatamente malinconiche. In chiusura la struttura è ormai sfibrata, sfatta, la massima tensione è stata raggiunta e ci si abbandona all’espirazione liberatoria di Atmen Aus (espirare).

Niente di geniale, niente di sconvolgente, ma per gli appassionati del genere di sicuro una buona novità da non perdere.