Che amarezza! Sento, dentro di me, che questi sono gli anni migliori della mia vita, o perlomeno, dovrebbero esserlo. Il periodo in cui il mio cuore si è fermato, però, sono gli anni delle medie: pre-adolescenza brufolosa, menefreghismo totale verso le donne, centro “sociale” dove giocavo a Pokémon rosso con un emulatore per Game-Boy e ci si sfidava a calcio balilla per tutto il pomeriggio. L’ambientazione era quella decadente delle scuole color grigio-asfalto e il campo giochi dove ogni passo pesava mezzo quintale in più; l’unica cosa che mancava era la musica, Pine dei Plush, si colloca esattamente in questo mio passato fumoso e sfocato.

Riverberi infiniti di un’ammaliante voce femminile, muri di rumori ed immersioni in mari calorosi. Dei Broken Water meno spigolosi ma più sommersi, degli Echo Lake più confusi e stridenti, dei Young Prisms meno shoegazer e più sonici, con i quali condividono la città di provenienza: San Francisco. Il disco dura poco meno di 23 minuti, è intenso e denso sia come atmosfere, che emozioni, totalmente sospese in un anno imprecisato di una giornata soleggiata di mezza estate; tutte le canzoni sono delle piccole perle ben levigate, dove spiccano le due poste ai limiti: Wayn e Teeth.

Né carne né pesce, né shoegaze né noise, né indie né dream, ma talmente a mezza strada che tutto si sostiene perfettamente, senza nessun cedimento. Un debutto concreto e ricco di spunti futuri, per un genere, come lo shoegaze, in continua mutazione, alla spasmodica ricerca del mix giusto con l’universo alternative americano; quello dei Plush, seppur agli esordi, è già chiaro e diretto.

Tracce consigliate: Wayn, Teeth