La serenità disincantata è lo stato d’animo che più si addice ai devoti all’alt-folk di questo decennio. Metti su Sleeping Beauty e sei convinto di avere tra le mani uno di quei delicati songwriter anglofoni, e invece Andrea Pulcini aka Persian Pelican è marchigiano e non è neppure alle prime armi.
Tra le label che promuovono il suo terzo full-lenght c’è anche Bomba Dischi, nota ai più per ospitare Calcutta nel proprio roster, ma non si incazzino sin da ora i detrattori del fenomeno di Latina, perchè il suo songwriting e quello di Pulcini non si somigliano neanche un po’.

Le composizioni di Persian Pelican subiscono il fascino dell’America e della musicalità della lingua inglese sin dai primi due album autoprodotti. How To Prevent A Cold arrivò quattro anni fa con l’introversione di liriche ostiche e ispirate e di una psichedelia soft à-la Sparklehorse, in esiti interessanti ma di certo non immediati. La ricetta di Sleeping Beauty è più organica e diretta, e il progetto assume una forma più definita senza rinunciare alla propria indole ibrida: ballad a base di chitarre gentili, una voce carezzevole che si prodiga in falsetti da manuale, arrangiamenti puliti che però non temono gli imprevisti e non rischiano di cadere nella monotonia. L’inquietudine del passato sembra essersi placata in una formula dream pop composta e avvolgente, che convive serena con le interferenze e che ha il sapore confortante del cielo terso dopo una tempesta.

Un timbro vocale elegante giunge da un’epoca lontana per stendersi sulle tredici tracce dal minutaggio ridotto, a tessere un’unica tela a tinte desaturate di umori che non mutano mai in modo brusco, e fluiscono indistintamente sui girotondi estrosi delle chitarre di White Noise così come sulle strutture più catchy e consuete (Somber Times, The Forest). Il ritmo si fa sostenuto negli incisi blues di Pastoral, per riprendere fiato in episodi minimali come Orphan (corde e sussurri e la voce di Tom Brosseau che fa capolino nei cori) e ripartire dilatandosi sulle percussioni sostenute del crescendo di Getting Older. L’atmosfera sognante si dissolve nei due brani conclusivi, che da timide intro degenerano in lisergici loop di ukulele (Valentine) o in parentesi di cori enfatici (Restless).
Quella di Sleeping Beauty è una malinconia sorridente: quella di un Bill Callahan meno fatalista o di un Glen Hansard che riesce a non cadere nel melenso, ma a conti fatti anche quella del Battisti più surreale.

Tracce consigliate: Getting OlderValentine