È una caratteristica insita nell’uomo quella di pensare che, nelle epoche passate, fosse tutto squisitamente migliore. Questo comportamento viene spesso denominato “sindrome dell’età dell’oro”, ovvero aver nostalgia di epoche mai vissute, perché insoddisfatti del presente. E’ sempre più facile apprezzare le cose passate, perché ci sembrano quasi mitiche, leggendarie e finiamo per sminuire il presente o comunque non apprezzarlo come merita (e spesso gonfiare il resto). Tutto questo succede anche in ambito musicale, forse anche in maniera più estrema. Infatti, sembra sia ormai scolpito nell’immaginario comune, che la musica della nostra generazione non sia all’altezza di quella delle generazioni passate. E quindi è uscito un nuovo album di Panda Bear, per dirci a tutti che queste sono puttanate e per ricordarci che, almeno musicalmente, è bello vivere anche in questo decennio.
Noah Lennox ha bisogno di poche presentazioni: è il leader di uno dei gruppi che, volente o nolente, ha più influenzato l’ultima decade musicale. Il curriculum del Panda è mostruoso: tra gli album con quei pazzi degli Animal Collective e i suoi lavori solitari, fatichiamo a scorgere sbavature. Si trova quindi ad affrontare la sua quarta fatica, con aspettative leggermente enormi, ma, a quel simpatico ragazzo di Baltimora, secondo voi frega qualcosa?
Con naturalezza,infatti, partorisce l’ennesimo capolavoro: la psichedelia di Panda Bear Meets The Grim Reaper è figlia sia di Person Pitch che di Tomboy ma abbandona definitivamente la struttura amorfa del primo e risulta decisamente più movimentato e coeso rispetto al secondo.
Singolare il titolo: The Grim Reaper, appunto, non è altro che la classica figura della morte con la falce. Tematica strana per l’artista, che con questo disco sembra voglia dissacrare ma anche prendere consapevolezza dell’argomento. Segno di una crescita personale dovuta alla presa di coscienza del tempo che scorre e del fatto che, forse a malincuore, non si può rimanere per sempre degli adorabili cazzoni hippie. Una sorta di maturità artistica testimoniata anche dalla struttura più canonica delle canzoni, ma che non fa perdere nulla in termini di creatività e originalità.
C’è un abbandono quasi totale della strumentazione classica a favore dell’elettronica, mentre sono sempre presenti le forti influenze beachboysiane, stavolta però, accompagnate da sfumature di hip-hop. In tutta sincerità è difficile parlare delle singole canzoni, perché c’è davvero uniformità di bellezza e citarle tutte sarebbe pesante (se già non lo è). E’ impossibile però non menzionarne alcune: il singolo Boys Latin, sembra una filastrocca celestiale proveniente dall’oltretomba, contornata da una palude di suoni elettronici in contrapposizione, l’altro singolo, Mr.Noah, col suo ritmo vorticoso e dal ritornello terribilmente catchy, Selfish Gene, ovvero l’accettazione della condizione precaria dell’uomo, appunto della morte, con quei synth che ti fottano davanti e dietro, dall’inizio alla fine, e poi c’è lei, Tropic of Cancer, dedicata al padre morto anni fa, annunciata da un suono di tromba malinconico che introduce un campionamento di arpa candido, il quale accompagna per tutta la canzone la celestiale e struggente voce di Noah (probabilmente la sua più bella prestazione in assoluto), generando una traccia maledettamente delicata e profonda, dove non piangere, significa inequivocabilmente, avere la parte sinistra del petto vuota.
Panda Bear sta diventando grande, ma a modo suo: l’immaginario incontro con la nera signora è emblematico di una presa di coscienza e responsabilità da parte dell’artista, ma questo incontro appare tutt’altro che oscuro e tetro, al contrario, risulta fiabesco e colorato.
Insomma mr. Lennox ci augura un buon 2o15 a modo suo e sgancia la prima bomba dell’anno. Chi ben comincia…
Tracce consigliate: Tropic of Cancer, Mr.Noah, Selfish Gene.