In fondo Daniel Lopatin vuole bene a tutti noi. Ci preoccupiamo di cosa può accaderci tra vent’anni, gioie e i rimorsi convivono in un passato fatto di canzoni, dischi, band, case discografiche, soldi, e continuiamo ad essere affascinati dall’occulto, dalla polvere (elementi chiave dell’hypnagogic pop, svanito nella nube lo-fi da cui era nato), le ristampe, gli inediti e così via. C’è una serie di artisti, tra cui Lopatin, che questa storia non la vogliono solo alterare, ma trasportarla in un’imminente dimensione digitale fatta di google glass, smart city, piazze virtuali. Il futuro sì.

La rivista Dummy ha argomentato la questione in virtù del ruolo che il capitalismo ha occupato nel corso della storia con estratti di filosofi e tuttologi, indicando con vaporwave la nube di musicisti che sublimano i canoni della musica tradizionale, e allo stesso tempo l’ascoltatore succube delle convenzioni sopra elencate. Ecco, forse l’articolo si prende molto sul serio, ma stai a vedere che Tim Hecker, James Ferraro, The Haxan Cloak la pensano allo stesso modo. E’ giunto il momento di credere nell’esistenza della stanza dello spirito e del tempo? Siamo proprio sicuri che non c’è musica lì dentro?

Lopatin nel suo R Plus Seven apre le porte alla digital reinassance sfigurando sia il concetto di album come insieme di canzoni, sia la canzone stessa, non più un taglia e cuci come in Replica ma una solenne opera strumentale che si ispira alla tecnica minimalista americana degli anni sessanta (Philip Glass); il lavoro respira un’aria fatta di sample vocali e strumentazioni che ripescano un immaginario 90’s di oggetti concreti in scenari androgeni, dove non esiste un tempo di battuta umano (tranne in alcuni casi come Zebra), ma solo funzioni e algoritmi. Passaggi brutali a beat dilungati all’infinito, in una nostalgica alchimia tra suono e paesaggio che si concilia nel silenzio zen.

Non è l’avanguardia che fa di R Plus Seven un album da apprezzare, ma il genio di un artista che fa della musica ciò che ritiene opportuno, in questo caso una specie di rivoluzione dadaista. Che poi nell’urinatoio storto c’han pisciato tutti.

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