Dopo un silenzio di due anni, quelli passati dalla pubblicazione di Last Night On Earth, tornano Noah And The Whale con questo Heart Of Nowhere, e, mentre tutti continuano a ricordarli sono per il singolo del debutto Five Years Time (“sun sun suuuuun”), loro continuano a provare a cambiare genere. Ma qualcosa non funziona.

Se il secondo lavoro The First Day Of Spring era palloso ma onesto, il successivo carente, e nel complesso molto più palloso che onesto, questo Heart Of Nowhere passa il limite, facendo vincere ai cinque londinesi il primo premio per la band con l’identità meno solida del mondo, oltre che, probabilmente, quello per la più noiosa. Come già era successo per i precedenti, quest’album c’entra molto poco con i suoi predecessori: ok cambiare genere, cercare costantemente una formula espressiva nuova e migliore, ma, se non sei Tom Waits o Frank Zappa, è meglio evitare di farlo ogni volta che pubblichi un disco, o rischi di rimanere seppellito dagli arrangiamenti, riempitivi e orpelli vari senza lasciare mai che emerga la tua vera personalità artistica, ciò che, ammesso che vi sia, potremmo chiamare “sostanza”.

Dopo una breve e inutilissima Introduction, che di tutto l’album è ciò che più si avvicina alle atmosfere dei primi lavori, parte la title track Heart Of Nowhere che ospita alla seconda voce Anna Calvi: dopo una breve sviolinata arriva la strofa; una batteria secchissima, chitarre e basso plasticosi, ancora qualche sviolinata, la voce della Calvi e quella del buon Charlie Fink con il suo solito cantato da fratellino gay di David Byrne. La terza traccia All Trough the Night si apre con una ritmica analoga a quella della traccia precedente, e delle belle chitarrine che ci fanno pensare che NATW abbiano ascoltato i Police, riuscendo a reciclare solo la squisita attitudine di Summers a sfornare riffettini noiosi. Poi arriva Lifetime, e poi ancora Silver and Gold –e l’impressione di star ascoltando sempre la stessa canzone aumenta sempre più. La seconda metà del disco invece, a partire dalla ballad One More Night, cambia: si sente sempre di più l’influenza ritmica dei già citati Police, oltre ad un certo insopportabile flavour da backgrond music di National Geographic. Gli spunti carini ci sono anche, sparsi qua e là in un contesto nel complesso noioso ed incredibilmente prevedibile, una tracklist gestita malissimo e decisamente troppo poca originalità: Still After All These Years è una buona canzone pop, come pure There Will Come The Time, se soltanto non fosse troppo ma troppo simile alla precedente.
Ci sarebbero tantissimi interventi possibili per trasformare un quest’album in qualcosa di meglio; a partire dagli arrangiamenti, che, monotoni e mal gestiti, appiattiscono l’interno lavoro, arrivando alla disposizione dei brani, che, se fatta con maggior criterio, avrebbe potuto escludere una certa fettina di noia.

Un album stanco e trascinato -non totalmente da buttare, ok, ma nel complesso buono solo per prendere sonno. Possiamo solo ragionevolmente sperare che il caro Charlie Fink decida entro breve tempo di appendere al chiodo le sue velleità di cantastorie, e si dedichi solo ai cortometraggi e alla masturbazione. Mai fidarsi di un disco il cui singolo è un featuring.

Recommended track: Heart of Nowhere

4.9/10