drones

Da circa dieci anni a questa parte i Muse sono più un fenomeno di costume che una vera e propria band. Ascoltare gli ultimi i brani del gruppo di Teignmouth, a cavallo tra i Queen più scontati e la dubstep più cafona, è veramente un esercizio snervante, che riesce a battere, in quanto a fastidio, la sensazione orribile della sabbia nel letto e dell’orticaria messe assieme. Spesso il fanboy piccato risponde alle critiche con “eh, ma sono degli ottimi musicisti“, fatto inoppugnabile, peccato che anche i turnisti di Laura Pausini lo siano senza che nessuno si scomodi per tesserne le lodi, oppure “eh ma in passato hanno scritto ottima musica, li criticate solo perché sono diventati popolari“, come se l’aver scritto musica dignitosa anni orsono ti obblighi a dover riempire gli stadi facendo (male) il verso a Skrillex. I Muse sono diventati financo un argomento di conversazione e nonostante vi impegnate per non ascoltare nulla, prima o poi tra i vostri amici medi fruitori di musica l’argomento Matthew Bellamy salterà fuori e voi dovrete essere pronti a reggere la discussione evitando di bestemmiare, impresa ancor più ardua dopo l’uscita di Drones. Tralasciando commenti sulla copertina, volutamente fallica, il terzetto britannico ha incentrato la sua settima fatica in studio in un concept album che affronta la stantia e logora tematica della disumanizzazione del mondo culminata dall’avvento dei droni, dove il protagonista cerca di sfuggire a questa manipolazione mentale ribellandosi alle forze oscure (?). Secondo Bellamy: “Per me, i droni sono metaforicamente psicopatici che permettono comportamenti psicopatici senza possibilità di appello. Il mondo è dominato da droni che utilizzano altri droni per trasformarci tutti in droni. Questo album analizza il viaggio di un essere umano, dalla sua perdita di speranza e dal senso di abbandono, al suo indottrinamento dal sistema per divenire un drone umano, fino all’eventuale defezione da parte dei loro oppressori.” Dopo aver preso atto che il buon Matthew in vita sua non abbia letto altro che Orwell, andiamo ad analizzare le dodici tracce che compongono Drones.

Tra soluzioni obsolete e oltremodo pacchiane, una produzione invadente e plasticosa e la mancanza di un vero e proprio filo conduttore musicale, il minimo comune denominatore del disco sembra essere il caso. Reapers inizia con un groove di batteria simil Cure nel quale si inframezzano virtuosismi in tapping alla Van Halen e riffoni hard rock alla Tom Morello, il tutto completamente (A CASO)Psycho è l’ennesima autoscopiazzatura, o se preferite una b-side riesumata e prodotta peggio, Mercy è la classica tamarrata degli ultimi Muse, con quella tastierina fastidiosissima che farebbe salire il nazismo anche ai nostalgici della dance anni ’90. Il peggio è finito qui? No signori, deve ancora arrivare. Revolt ha un chorus sinistramente simile a With Or Without You, il che certamente non è un segnale di salute, Defector è l’ennesimo e trito tentativo di fare il verso ai Queen. Globalist vorrebbe essere un tripudio a Morricone, ma finisce per essere un accozzaglia di scarti piazzati li, ancora una volta (A CASO). E non è un caso che probabilmente il miglior brano del lotto sia [JFK], cinquantacinque secondi del discorso del presidente Kennedy del 1961 a New York.

Drones è un album eccessivamente ambizioso e privo di idee, che sancisce il definitivo declino artistico dei Muse, i quali nelle intenzioni vorrebbero assurgere a Pink Floyd degli anni 2000 ma sono solamente bravissimi a farli rimpiangere.

Tracce consigliate: [JFK]