“He [Momus] is fascinated by identity, Japan, Rome, the avant-garde, time travel and sex.”

Su Wikipedia ho letto questa frase alla voce Momus.
Credo che sia uno di quei tentativi per fare apparire un personaggio strano più di quanto possa esserlo. Se qualcuno effettivamente mi chiedesse se sono affascinato dai viaggi nel tempo gli direi di si, affermerei poi di essere affascinato anche dal sesso come fatto consequenziale; il Giappone affascina di per sé, e appare oltretutto legittimo affermare che Roma è una città affascinante, almeno quanto le avanguardie storiche. Risulta evidente affermare che Momus è una persona normale, tranne forse per il punto sull’identità che non mi è ancora molto chiaro, ma comunque sia.
Porta anche una benda su un occhio ma occavolo, lo farei anch’io se fossi cieco da un lato.
Momus è un musicista guercio che scrive Bibliotek, il suo ultimo album.
L’ho ascoltato ieri con le cuffie in testa e le mani in bocca, è iniziato piano, con suoni da favole di una volta, poi la cassa capionata, poi qualche flauto, tappeti di sinth che scivolano giù ad accarezzarti il ventre, poi la voce sua che quasi sussurra a raccontarti una storia che è quasi un segreto mi vien da dire. Se lo si ascolta da vicino si vanno a scoprire una miriade di suoni, di campionamenti grossolani, di fruscii e aria che si muove, di accendini, di non so che cazzo, credo sia arrivato a campionare i suoni di una stanza vuota, lo dico con evidente sarcasmo da intenditore, non me ne vogliate.
La linea rimane questa per tutta la durata del disco, una palla tonda di suono con qualche fronzolo qua e là, elettronica si, ma da passeggio, da cantastorie, un folktronic della post-modernità, si?
Mi sta bene.