Matthew E. White ha la barba, il capello lungo fin sulle spalle, un vestito pulito, ben stirato, indossato da poco, una testa che a detta sua è una scatola con cose dentro, parole più che altro. Parole innamorate, parole di mostri, parole incantate, sì; cose così. Matthew E. White ha la barba, e fa credere alla gente che vestirsi di bianco e chiamarsi bianco allo stesso tempo è un privilegio riservato a pochi. Buon per lui,

Big Inner è il disco che per svariati motivi è considerato il primo album di Matthew E. White.
Ebbene, Big Inner è un bel disco, un’ottima introduzione per un tizio che ha la barba e i capelli lunghi fin sulle spalle. Se proprio vogliamo inserirlo in un determinato contesto, a braccetto con qualche altro cd della storia della musica mondiale, beh, mi pare inevitabile nominare Otis Redding in primis e tutta la bella compagnia del Soul americano di quegli anni li, con la cara vecchia Aretha e tutti quanti.
Si ecco, diciamo che Matthew si inserisce li in mezzo, o perlomeno, parte da li. Poi ci mette del suo, ipotizziamo che si prenda gli accordi base e che ci cambi le parole, ma in modo del tutto naturale, come se andasse a migliorare, a modernizzare il pezzo, a renderlo suo e tutto il resto, e allora alla fine gli dai ragione. Come biasimarlo? Uno che si tira fuori i mostri dalla testa, le sue parole innamorate strofinate contro i giorni d’oggi, e le mette al posto di quel “Sitting in the dock of the bay”, alla fine credo faccia un piacere a tutti.
Vabbè sì, non ricamiamoci troppo sopra, alla fine fa quello che stanno facendo tutti oggi, cambiare le parole a qualche pezzo vecchio, però certo, d’altro canto, bisogna premiare chi lo fa meglio degli altri. Questa era buona, Matthew.
Per il resto si può dire che è un disco suonato piano, ci sono dei momenti dove tutto dovrebbe salire, spaccare tutto, perdersi in assoli differenti, e invece no, rimane lì, ovattato, come la coda finale che chiude l’album, un continuo salire che non arriva mai a meta e mette un ansia addosso che non vi dico. Altre cose belle sono i cori, il quartetto d’archi, e l’ampia sezione di fiati, il sassofono su tutti che ogni tanto esce come fosse un uccello, e il basso che spinge ma lo fa piano, come tutti gli altri, a disegnare una sorta di grande cuscino tondo sul quale ti puoi sdraiare e probabilmente, più tardi, addormentare.