Silver Lake non sembra un brutto posto dove vivere. Dalle sue colline si può vedere il centro di Los Angeles, è un quartiere multiculturale ma cool, pieno di locali arty e hipster, dove hanno sede numerose scuole private, studi cinematografici (grazie Wikipedia) e dove vivono parecchie celebrità, tra cui Ryan Gosling, Donald Glover, James Franco e Mac DeMarco.
Dal 2008 ci vivono pure i Local Natives, che tra le strade di Silver Lake hanno costruito nel tempo un suono simile a quello di tante altre band, pur mantenendo altissimo il livello di scrittura, fin dagli esordi.

Dieci anni dopo Gorilla Manor, le cose non sono cambiate troppo. La loro musica si è spalmata sempre di più su quella linea invisibile che, da Band Of Horses e Fleet Foxes in poi, ha accompagnato – con più o meno fortuna – un elenco infinito di band con il gusto per i coretti, le armonizzazioni vocali e gli intrecci puliti di chitarre. Chi è riuscito a smarcarsi da queste etichette – ad esempio i Grizzly Bear – è sempre riuscito a ritagliarsi un proprio spazio, anche dignitoso. I Local Natives rimangono ancora nel mezzo, troppo bravi per non emergere in questo marasma, troppo didascalici quando si tratta di pubblicare album in grado di rimanere nel tempo e colpire al 100%.

Violet Street non fa differenza. Canzoni clamorose si alternano a momenti piatti, tutti simili tra loro, difetto che colpisce l’album soprattutto nella parte centrale, in cui si fa veramente fatica a riconoscere un brano dall’altro. L’orchestrale Vogue, posta a inizio album, è perfetta: arpeggi di chitarra, archi, la voce di Taylor Rice che sale sempre più su. Poi parte When Am I Gonna Lose You, uno dei pezzi pop più belli dell’anno, dove proprio Rice si trova a fare i conti con la paura di vedere la propria relazione sfilargli tra le dita, mentre il ritornello esplode, entra in testa e non se ne va più. Café Amarillo ne è la controparte perfetta, ma anche l’inizio della fine. Dopo l’interludio Munich II, la triade Megaton Mile – Someday Now – Shy riporta la band in quel limbo di cui parlavamo prima. I ritmi si alzano, l’intento è quello di suonare meno malinconici, meno Local Natives, ma il risultato è la perdita di quella sottile vena emotiva che ha da sempre tenuto in equilibrio le loro canzoni.

Per fortuna Garden Of Elysian riprende il discorso dove si era interrotto, una ballata fantastica che potrebbe tranquillamente trovare spazio in Helplessness Blues. Gulf Shores è un altro picco del disco: il riff da 10 e lode è finalmente accompagnato da una grande scrittura, e l’intreccio delle voci funziona alla grande. Tap Dancer veleggia verso la fine dell’album in punta di plettro e pianoforte, lasciandoci un po’ l’amaro in bocca: se Gorilla Manor è il debutto riuscito ma che necessitava di piccoli accorgimenti e Hummingbird l’album dell’improvvisa maturità, Violet Street si mette in coda a Sunlit Youth, il terzo disco, quello interlocutorio, quello che già nel 2016 trovava la band divisa tra ottima e mediocre scrittura.

Non un disco brutto, intendiamoci – non credo che questa band sia in grado di scrivere brutti pezzi – ma un buon album con momenti decisamente sottotono, quello sì. L’ennesimo bignami di canzoni perfett(in)e, a volte senz’anima, ottime per l’airplay nei locali di Silver Lake, tra un attore in rampa di lancio, una modella wannabe e dei musicisti che devono finalmente decidere cosa essere da grandi, perché le potenzialità sono sotto gli occhi di tutti.

Tracce consigliate: When Am I Gonna Lose You, Gulf Shores