Norman Fucking Rockwell! (di seguito NFR!), album numero cinque di Lana Del Rey, non è caduto dal cielo inaspettatamente. Tutto il 2018 è stato caratterizzato da anticipazioni e videoclip: le due end of summer jams di metà settembre (Mariners Apartment Complex e Venice Bitch); il tributo a Sylvia Plath Hope is a dangerous thing for a woman like me to have – but i have it di gennaio e poi i tweet, le interviste, le feste di Gucci e i tweet e Kanye West e le poesie. Dodici mesi durante i quali ci si è avvicinati a questo nuovo lavoro, ma lo si è fatto con una certa distrazione perché dopo quasi dieci anni di carriera un artista non ha più segreti e nella testa ti sei già prefigurato quello che sarà. Come se i colori e le forme di un quadro nascosto da un telone bianco fossero già ben noti prima di essere svelato al pubblico. Ma oggi, con i colori e le forme davanti agli occhi, siamo in grado di percepirne le sfumature e di capirne il concept, osservandolo da vicino come si osservano le opere d’arte che offrono molto di più di quello che si era solo immaginato o notato con una certa distrazione.

L’incontro con Jack Antonoff è genesi e prefazione di NFR!: il produttore delle popstar (Taylor Swift, Lorde, St. Vincent, Carly Rae Jepsen) che ha contribuito alla creazione dei canoni e degli ideali estetici del female pop attuale le si è seduto accanto e, tenendo a distanza le sonorità imposte dagli standard del mercato, ha impostato un lavoro su quelle più vicine all’attitudine di Elizabeth Grant, che smette di essere prodotto per divenire attrice principale. L’album infatti non dà mai la sensazione di essere merce preconfezionata, ma ha più l’aria di una storia d’amore che arriva quando hai smesso di cercarla. Ed è proprio una storia quella che ci si trova davanti quando si ascolta NFR! Una storia non imposta da esigenze di contratto, ma che è nata e che si è sviluppata in un preciso momento storico che oggi viene osservato e raccontato con un atteggiamento differente.

Mentre del suo passato rimane solo il filtro nostalgia, tutto (o quasi) si pone in evidente rottura con quello fino ad oggi sapevamo di Lana Del Rey-prodotto. Il metodo scelto è quello narrativo: Lana Del Rey osserva se stessa ed il mondo che la circonda raccontando la realtà dal suo punto di vista. Diviene, se vogliamo, cronista di una Los Angeles post-sogno americano e protagonista di un romanzo in prima persona che esalta l’individuo ed i suoi cambiamenti e che mostra la verità del proprio tempo.

Dal titolo dell’album (richiamo tranchant a Norman Rockwell, illustratore del realismo romantico statunitense ed interprete principale dell’American Dream) all’artwork, il lavoro di Lana Del Rey è una fotografia degli USA al tempo del sogno svanito infarcita di riferimenti diretti alla società. Prendi The Greatest, ballata beatlesiana che racconta di qualcosa che non c’è più, di missili nucleari, di una città in fiamme, di un vecchio amico diventato tutto scemo e di un pianeta da conquistare (Hawaii just missed that fireball/L.A. is in flames‚ it’s getting hot/Kanye West is blond and gone/”Life on Mars” ain’t just a song).

Dal punto di vista strettamente musicale, Lana ha messo da parte i lamenti e le depressioni stereotipate per ragazzine problematiche che tanto hanno concorso alla sua esplosione quale fenomeno numero 1 del sadcore a stelle e strisce. Così come le ballate da diva incompresa, mezza pin-up e mezza nichilista, ed i momenti pisolino (in minima parte ancora presenti: Love Song o Cinnamon Girl). La sua voce oggi è suadente, ma compatta, da stronza, ma meno schifata. E questo è il riflesso di testi che si distinguono per maturità e schiettezza ed anche per una piena consapevolezza di sé, come se non avesse (più) paura di mostrare debolezze e malinconie e di vivere in una società patriarcale. Ha anche imparato a sorridere.

Se si guarda al suo passato, oggi sorprende sentirla affermare in Mariners Apartment Complex di non essere una donna fragile (“I ain’t no candle in the wind”) mentre esclama quell’I’m your man rubato dall’omonimo album di Leonard Cohen che pone Elizabeth al timone con una mano tesa a chiedere fiducia. Lana non è più quella di una volta o più semplicemente è stata solo fraintesa. E sorprende ancora di più in California. Qui, l’empatia con la quale ti dice di essere te stesso cela un consiglio quasi materno che ti spinge a rifiutare la superficialità hollywoodiana (“You don’t ever have to be stronger than you really are/When you’re lying in my arms, and, honey/You don’t ever have to act cooler than you think you should/You’re brighter than the brightest stars”).

E poi un fiume di citazioni che trasformano un album pop in un enciclopedia piano/chitarra del rock’n’ roll losangelino, di suicidi (3 in tutto l’album) e di luoghi simbolo. Nella colline di Laurel Canyon che portano a Sunset Boulevard e poi verso Topanga e più in giù verso Venice fino a San Diego, ci sono le sue madrine dichiarate Joni Mitchell (California) e Sylvia Plath (Hope is a dangerous thing for a woman like me to have – but i have it). Ci sono i riferimenti a Houses of The Holy dei Led Zeppelin in The Next Best American Record e a Kokomo dei Beach Boys in The Greatest. Ti puoi imbattere in Cyndi Lauper (The Bartender), Doris Day, Mama Cas (Fuck it I Love You). E, ancora, David BowieJohn Lennon e Crosby, Stills & Nash e Robert Frost. Nell’album c’è spazio anche per Doin’ Time, cover dei Sublime (cantante anch’esso morto suicida) che è stata utilizzata nel documentario ufficiale sulla band presentato al Tribeca Film Festival e che racconta in chiave trip hop il California state of mind.

NFR! è un’impasto minimalista di influenze blues, folk e soft rock che tocca il punto più alto con Venice Bitch, inizialmente lento acustico che si trasforma in un trip noise-psicheledico, capace di raccontare in nove minuti tutta la malinconia della fine dell’estate, mescolando la chitarra elettrica e brillanti cambi alla batteria alle liriche (And as the summer fades away/Nothing gold can’t stay – quest’ultimo rubato al poeta Robert Frost).

Con NFR! Lana Del Rey supera la fama che per anni l’ha preceduta imponendosi sia come artista sia come donna. Gioca senza esagerazioni col vintage e la malinconia, mescolando poesia e glamour nostalgico. Ha lanciato una sfida al mondo del pop, quello dei brani da tre minuti e dalle sonorità precotte, con un lavoro poco commerciale ed ancor meno radiofonico. Ma la sfida è anche contro se stessa. La strada che ha imboccato è precisa e molto coraggiosa perché a meno che tu non ti chiami Madonna non puoi più fare marcia indietro.