Il progetto sloveno Laibach più che fare riferimento ad una realtà prettamente musicale, è andato nel corso degli anni arricchendosi di stratificazioni artistico-politiche, fino a rendere il branco di mattacchioni che si riconosce nella dicitura Neue Slowenische Kunst (NSK) sempre più simile ad un “collettivo” più che ad una semplice band. Dal 1980, anno cui ne risale la fondazione, a oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata e dopo una serie di più o meno architettati scandali politici (fra tutti le dichiarazioni sconcertanti in merito alla situazione Jugoslava) e di album con qualità oscillante, anche i Laibach si affacciano al 2014.

Il difficile in questi casi è riuscire a discriminare la linea sottile che separa l’inventiva musicale e l’originalità compositiva dalle trovate polemiche del momento. Probabilmente l’effetto straniante di questa ricerca è proprio ciò che il collettivo vuole ottenere nel conoscitore (termine a questo punto più corretto del semplice “ascoltatore”) e forse risulterebbe riduttivo non tener conto del sottobosco di estetica del potere e propaganda criptofascista da cui scaturiscono le canzoni dei Laibach. In pratica risulta necessario considerarli in toto, come a dire che no, non puoi ordinare un kebab con sola salsa piccante (leggi industrial a tinte post punk), ma ti devi beccare tutto, cipolla compresa (leggi tamarrate naziste e melodie pompose al limite del sopportabile).

Le coordinate ideali sono quelle figlie del più ispirato apocalyptic folk (per chi non sapesse di cosa sto parlando vedere alla voce Death in June per notare i continui rimandi) e naturalmente delle avanguardie industrial, anche se non potendo competere con la poeticità deathinjuniana alla visione mistico-filosofica di Douglas Pearce, l’NSK sostituisce piuttosto un’estetica della provocazione continua e dell’iperbole come mezzo espressivo.

The Whistleblowers impone fin da subito le ritmiche militari che si accompagnano ad un tappeto tipicamente post punk e al cantato grave di Milan Fras.
In No History, dove comincia ad apparrire una voce femminile di cui non è ben certa l’identità, hanno il coraggio di spostarsi sul versante dubstep (approccio riproposto in Love on the Beat) mentre in Eat Liver! il tempo si ferma ai goth club anni 80. Americana e Eurovision rimandano ad un’elettronica più intimista con decisi spunti trip hop, che fanno da sfondo a liriche rassicuranti del tipo “Europe is falling apart!”.
We Are Millions and Millions Are One risulta essere un non meglio identificato compendio di sgangherata musica neoclassica e sperimentale, così come Walk With Me dove si ripete ciclicamente un inquietante motivo mutuato dalla musica classica cui si alternano con amarezza le voci maschile e femminile. Bossanova è tutt’altro che una bossa nova e le ritmiche martellanti accompagnano una voce isterica che si contrappone come già collaudato al cantar recitando di Milan. Resistance Is Futile si innesta su una base minimale, per poi esplodere dopo l’urlo “Blitzkrieg!”. Anche qui i versi rimandano ad una parodia del totalitarismo: “Come to us to not fight against us…”. Le atmosfere virano nuovamente verso orizzonti neoclassici in Koran, l’unica canzone in cui forse i Laibach scrivono veramente quello che pensano.
The Parade, Just Say No! e See That My Grave Is Kept Clean sono forse gli episodi più deboli perché sembrano cedere a quell’amore per il kitsch che a lungo andare diventa fastidioso.

Nel complesso Spectre è un album ricco di spunti, anche se alla luce del periodo in cui viviamo e di ciò che è già stato fatto c’è da chiedersi se le battaglie musicali che i Laibach credono di combattere non siano come quelle stelle che continuano a emanare luce nonostante siano già estinte.

Traccia consigliata: The Whistleblowers