“It would be boring as hell, lazy, and cowardly to just do what you’ve already done. I did my first record. I don’t need to do it again.” Probabilmente proprio in questo senso deve essere inteso Otherness, cioè nel suo significato e processo più fisiologico, naturale e viscerale, poiché pare essere questa la più intuitiva e immediata ratio, la quale sotto l’ombrello di tratti connaturati si cela. Che poi, in realtà, proprio nulla è occulto; anzi, né le chiare parole di Adam Bainbridge né il terso sostantivo Otherness sembrano dissimulare niente. Tanto è vero che, pulito e candido come il bel viso dello stesso Bainbridge sulla cover dell’album, affabile ed educato come il pop espresso, Kindness cortesemente presenta il suo secondo album, Otherness appunto, e lo fa a due anni dall’uscita di  World, You Need A Change Of Mind, il debut album galateo del buon tono. Se, dunque, da come ormai pare evidente, vi è anche oggi e con Otherness, solo dopo il full-length d’esordio, uno stretto nesso tra la semiografia musicale e il titolo dell’album, chiaramente è tutto ancor più immaginabile e nitido. Tuttavia non scontato, anche considerando le parole di Adam in cima riportate.

Certo, non una verità lapalissiana, perché guardando infatti alla scrittura delle tracce qualsiasi pronostico può risultare ora vano. Non che il talentuoso giovane abbia in passato dispensato chimere, ma forse un pochino ci ha illusi e indotto a essere ragazzoni malavvezzi. In sostanza, credo chiunque, come me d’altronde, trepidante attendeva un bel po’ di sano groove funky sulla falsariga di Gee Up o Gee Wiz. Oppure anche il solo riverbero dello smooth soul così levigato che mai prima di allora, dopo la morte di Marvin Gaye, era stato tanto sapientemente riesumato dopo un attento rispolvero. Ancora, qualcuno si aspettava discreti giri house o soffocati synth?
Un attimo però, non voglio sembrare oltremodo nostalgico, nel vero senso di addolorato dal ritorno di qualche reminiscenza.
Otherness è comunque come fosse un riflesso: in ogni modo la sagomatura dell’immagine proiettata è quella che si conosce, e questo è senza dubbio un bene ma l’orpello, ben camuffato e acconciato, è pur sempre visibile. Si è dinanzi, dunque, a un monolitico obelisco pop che conosce seducenti bassline, intermezzi funky e forse anche eccessivi tempi mielosi che non di rado scadono nello svenevole; grosso modo è quanto Bainbridge ci aveva lasciato in quella abbondante e allo stesso tempo leggera eredità. Eppure, la compatta e inscindibile massa, pare essere con Otherness divenuta un onnicomprensivo involucro che si rivela ovattato e per questo riparato ma il quale allo stesso tempo non dà sfoggio di una baldanza che sarebbe stata sicuramente apprezzata e più corrispondente alle aspettative costruite in passato dal nostro caro Kindness. In concreto, un abbraccio così ampio, come lo è la cultura di massa in genere, accorda una possibilità di rischio minima, e in realtà è questo, caro Adam, al contrario di quanto tu possa pensare, che si dimostra e mostra tratti piuttosto vili, per usare tuoi termini, e poco garibaldini.

Che ammiri con compiacimento sé stesso, Adam Bainbridge, si era compreso  da tempo. Se prima, però, lasciava intuire solo vagamente il galoppante narcisismo preferendo un’istantanea in bianco e nero come cover del debut album, ora si assiste a un rifiuto dell’ombra e a una prepotenza d’immagine. E che tale consapevolezza sia maggiore, lo si può anche constatare guardando alle collaborazioni: indubbiamente ragguardevoli, in alcuni casi vanno ad arricchire la produzione di Otherness, in altri meno. Quindi, per esempio, Kelela in World Restart. L’opener, quest’ultima, che aprendosi con un motivo sobrio di tromba, presto si dispiega in evoluzioni di forte impatto jazz-funk. La voce in appoggio della cantante statunitense elargisce momenti assolati e scanzonati, ma anche fascinosi e carnali come nell’altra collaborazione With You.
Difficilmente può dirsi lo stesso circa il contributo invece offerto dall’ossigenata Robyn in Who Do You Love? Brano, questo, che contempla in linea di massima la sola voce della cantante svedese, e sguarnito, a parte il drumming ripetuto sul tappeto armonico accordato dal piano, evoca un’uggiosità domenicale.
This Is Not About Us è invece meritevole di elogio; Adam si spreca nell’espressione del suo animo femmineo regalando attimi di una devozione e affezione consolanti, il tutto in un’aura che predilige e enfatizza le pause tra il giro di basso e la frase ritmica sul rullante. Facilmente, invece, cala la palpebra in circostanze soporifere quali Geneva o Why Don’t You Love Me, sicuramente assieme a For the Young, la quale è già però meno narcotica anche grazie all’arrangiamento acustico in pizzicato. Per riprendere l’appunto circa le collaborazioni, 8th Wonder conta la la partecipazione di M.anifest, il rapper ghanese che negli ultimi tempi è spesso stato dal vivo spalla del buontempone Damon Albarn. Il tandem M.anfiest-Bainbridge, inaspettatamente, sento di azzardare, funziona. La morbidezza e oziosità del tappeto armonico, infine, in I’II Be Back, esemplare rappresentazione soul, è come fosse il Dry Martini che si era ordinato e, nell’ansietà di berlo, consumato nell’orgia del desiderio.

Si capisce che, fatti numerosi passi avanti è difficile e paradossale farne altrettanti indietro. Kindness non opera una regressione, piuttosto rimane fermo ed esposto alle intemperie dalle quali in qualche modo deve schermirsi. Il risultato più immediato di tale condizione è quindi una decadenza caratteriale e carismatica, che si traduce nell’indiretta condiscendenza alla mentalità predominante o, se si preferisce, alla cultura di massa. Non si può sostenere, in ogni caso, l’idea che Otherness non sia un album valido, anzi. Tuttavia la malinconia che questo con sé porta è proprio il primo sintomo dello spettro bipolare che incalzante avanza.

Traccia consigliata: This Is Not About Us.