Nascosto dietro l’ormai classico suono che lo caratterizza, James Blake decide di raccontarsi al proprio pubblico, a distanza di una decina di anni dal proprio debutto. Ciò che Assume Form disegna sono l’apertura emotiva e la sicurezza psicologica ottenute con la creazione di uno spazio personale, un trasferimento oltreoceano e la nascita di un amore maturo. Sebbene la vera e propria vita dell’artista inglese si sia evoluta, musicalmente Blake rimane ancorato a riva, senza spingersi al largo, rimanendo nel proprio piccolo paradiso melodico da lui stesso creato. Di tanto in tanto sporge la testa, guarda l’orizzonte, qualcosa di nuovo, ma senza mai avvicinarvisi.

A venirgli incontro sono però gli artisti presenti nel disco, alcuni dei quali conosciuti in passato (Travis Scott, André 3000), altri invece incontrati per la prima volta (Rosalía, Moses Sumney, Metro Boomin). È da giorni prima della release che si sperava che l’avvento di questi featuring potessero portare il  suono di Blake verso qualcosa di nuovo, e non nego che una piccola parte di me sperava di sentire dei ritmi flamenco o una parte di clarinetto dell’ex leader degli Outkast. Allo stesso modo, però, ascolto dopo ascolto, nonostante la mancanza di sperimentazione da parte di Blake, Assume Form rimane un album che eccelle tra gli altri. Trovata fortunatamente la stabilità nella propria dimensione emotiva, le liriche di Blake sono adesso sicure, talvolta tristi ma anche cariche di stima per l’amata a cui è praticamente dedicato tutto il disco.

A marcare questo cambiamento è Power On che, con ridondanza, nega tutte le memorie grigie del passato, non più ristagnanti nello Stige che l’artista ha dovuto attraversare durante il proprio percorso. Allo stesso modo, l’incredulità di Can’t Believe The Way We Flow sostiene la gratificazione dell’essere finalmente in pace con ciò che si scrive.
Per quanto riguarda i brani condivisi con altri artisti, Blake impone sempre il proprio stile sugli altri, tenendo pur sempre il livello alto ma, come già detto in precedenza, senza andare oltre i propri limiti. Spicca Where’s The Catch in cui André 3000 amministra la regolarità del ritmo con la propria singolare metrica, portando l’attenzione verso quello che potrebbe essere l’unico brano legato alle prime produzioni di Blake, nonché il più impetuoso. Al contrario passa inosservata Tell Them, coproduzione con Metro Booming e cantata dal talento Moses Sumney, probabilmente perché tra i due fuochi di Mile High (con Travis Scott) e Into The Red entrambe bellissime; la prima con un singolare mix di generi e per l’intreccio tra i due cantati, la seconda per la bellezza sentimentale e l’incredibile crescendo.

C’era comunque da aspettarsi dal singolo Don’t Miss It che Blake avrebbe raggiunto l’apice della propria dote cantautorale con questo disco. È questo, forse, il miglior brano mai scritto dall’artista inglese, toccante in quanto massima espressione della propria persona: Blake va contro chi lo crede legato per sempre alla propria miseria quando, invece, per la prima volta, può esprimersi pienamente e schiettamente. Descrivendo la trappola della depressione con totale semplicità, si implica il legame con questa per tutta la vita, volgendo lo sguardo ad un passato amaro ma in un momento di totale tranquillità, arrivando così ad accettarla, senza sentirne la mancanza.

Tracce consigliate: Don’t Miss ItMile High