Gli Hurts ci riprovano. Dopo il debut Happiness del 2010, che pur dividendo la critica è riuscito a vendere più di due milioni di copie (anche grazie all’hype pompato da mamma Sony BMG, proprietaria del marchio RCA Records), il duo synthpop mancuniano formato da Theo Hutchcraft e Adam Anderson rilascia un nuovo LP, Exile.

Il loro sophomore, però, è chiamato al difficile compito di chiarire le ambizioni della band: rimanere all’interno di un ambiente di nicchia e proporre un elegante dark-pop sintetico o sconfinare nel mainstream come i Muse o i Coldplay?

Exile ci mostra fin da subito che i due ragazzi sono rimasti in un limbo da cui fanno fatica ad uscire, in bilico tra la voglia di scalare le classifiche incentivata, si vocifera, da un contratto milionario con la RCA, ed un’attitudine dark e new wave che influenza sia musica che testi. Tuttavia potrebbe essere proprio questo il motivo per cui la casa discografica abbia deciso di puntare così tanto su di loro, al fine di avere successo in quella fascia di pubblico fake-alternative che apprezzerà sicuramente la loro immagine da maledetti patinati, vendendo però più nell’Est Europa (dove sono ormai delle star) rispetto alla natia Inghilterra.

Gli Hurts però non sono totalmente riducibili ad un’operazione di marketing, e a loro modo sono riusciti a creare un’identità musicale che era riuscita ad emergere, nel bene e nel male, in Happiness; il suo successore ha il difetto di non aggiungere nulla a quanto già mostrato dalla band in precedenza, e di far leva fino alla nausea (ed oltre) su ritornelli che se non fossero stati arrangiati in maniera kitsch e ridicola (da far invidia a Rihanna) avrebbero potuto essere molto efficaci (Miracle, The Road, Mercy). La voce di Theo è paragonabile a quella di Dave Gahan o ad un malinconico Bellamy, e spesso si appoggia su coretti che definire fastidiosi sarebbe eufemistico; ma è proprio questo ciò che richiede il pubblico a cui Exile è destinato, quello dei fan degli ultimi Coldplay. L’ascoltatore attento però non si accontenta di questi “mezzucci” né del piattume musicale di questo disco, e si limita a catalogare gli Hurts come un bel fuoco di paglia patinato e modaiolo.

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