Già dal suo annuncio, Father Of All Motherfuckers si è rivelato per quello che è: un disastro annunciato. La recensione potrebbe finire qui, non c’è davvero molto altro da dire; il titolo, magniloquente come ogni cosa arrivata dopo American Idiot, la copertina che imbratta proprio l’ultimo bel disco della band, un tour mondiale con Weezer e Fall Out Boy (!) e soprattutto singoli uno più brutto dell’altro.

Le influenze e le ispirazioni sono messe sul tavolo fin da subito: George W. Bush e i tempi di American Idiot erano bazzecole in confronto ai tempi che stiamo vivendo adesso, signora mia! Abbiamo Trump, l’Iran, il Corona Virus e Joker è candidato a 11 Oscar, il presente sì che fa paura! Esorcizziamolo con un disco breve (27 minuti e passa tutto), ispirato da garage rock, blues, power pop, pure un po’ di indie rock contemporaneo e ci infiliamo dentro mille coretti, un sacco di “oh, yeah”, riff rubacchiati qua e la che facciamo passare per citazioni e il gioco è fatto!

La title-track la conosciamo tutti forse (spero non sia così), primo singolo e probabilmente il biglietto da visita che chiunque ha ricevuto per arrivare fin qui. Anche dopo molteplici ascolti il senso del brano sfugge: troppo scarna per riprendere la grandeur di American Idiot e 21st Century Breakdown, troppo elaborata per essere un ritorno alle origini o ai fasti di Dookie e Insomniac, troppo brutta per essere davvero il punto di partenza dei Green Day del nuovo decennio. Eppure Oh Yeah! fa pure peggio: lenta, impacciata, ci sono pure le tastierine a introdurci al peggior ritornello della storia della band; si scoprirà poi che si tratta praticamente di una cover di Joan Jett del 1984, che a sua volta aveva coverizzato Gary Glitter… in pratica, un casino. Per fortuna che arriva Meet Me On The Roof, tra Libertines e Beach Boys (sono ironico), o preferite Junkies On A High, con il suo ritmo rallentatissimo che vuole sembrare epico e invece suona semplicemente rompicoglioni?

I testi di Father Of All… faticano ancora una volta ad inquadrare una band matura: Billie Joe Armstrong ha quasi 50 anni e ancora canta “You can take a walk or you can suck my cock” (Take The Money And Crawl) e la scrittura in generale non vale nemmeno i Green Day 1.0, tanto è infarcita dalle solite banalità che li accompagnano da anni. Non si parla solo di cazzate: ci sono attacchi al razzismo, alle guerre, alla politica di Trump, ma sono tutti argomenti all’acqua di rose quando vengono affiancati al resto e condensati in un minutaggio da EP.

Ci sono pure pezzi positivi: Fire, Ready, Aim sarà missata col culo (un po’ come tutto l’album) ma in meno di due minuti rimane in testa e avrebbe potuto essere una perfetta b-side per i bei vecchi tempi. Pure la conclusiva Graffitia funziona, non fosse altro che abbandona le pretese garage e torna ad essere quel punk rock midtempo da singalong che non avrebbe sfigurato in 21st Century Breakdown. Il resto vale giusto il tempo di un ascolto, tra riff strasentiti e invettive anestetizzate, pronto per essere scordato subito dopo, come abbiamo fatto con la trilogia ¡Uno!¡Dos! e ¡Tré! o con l’insipido Revolution Radio.

Incapaci di staccare la spina, i Green Day si apprestano ad attraversare il loro quinto decennio di storia, costellata di pagine importantissime e iconiche (Dookie, Insomniac, Nimrod, la performance a Woodstock ’94, American Idiot) e di tanti, troppi riempitivi. Father Of All Motherfuckers vorrebbe prendere quella storia, strattonarla ed esclamare con forza “Io sono io! Voglio essere io! Voglio stare qui! Per me è possibile esistere!” ma fallisce clamorosamente, imponendosi come il peggior album della loro carriera.

Non ci sono applausi e congratulazioni in questo finale, ma solo un unicorno disegnato male che scoreggia fiamme e vomita arcobaleni sulla storia dei Green Day. Figo, eh?

Tracce consigliate: Graffitia