E mi hanno detto “Amico, a te manca il saio, rapper depresso, fuori contesto, troppo complesso, bibliotecario”
Lo sapete chi è Ghemon? Certo, è l’amico di Lupin che taglia le montagne con la katana.
Ma è anche lo pseudonimo di Gianluca Picariello, classe 1982, nato ad Avellino e poi ri-trapiantato più volte in giro per la penisola.
Già dai primi vagiti artistici (perlomeno quelli sui quali sono riuscito a mettere le mani) Ghemon si è fatto notare per un’individualità non allineata agli schemi poveri sui quali viaggiano tanti concorrenti, ironica ma con una costante nota di tristezza. Troppo spesso anticonformismo è solo un una parola usata per definire qualcosa conforme ad un altro metro di paragone rispetto a quello utilizzato. Questa volta non va così.
Orchidee arriva dopo 440/Scritto nelle stelle. Anzi no, perché 440/Scritto nelle stelle non ha mai visto la luce, considerato dal suo stesso autore forse non abbastanza onesto, forse non abbastanza adatto a quello che voleva davvero produrre in quel momento. E così ci ritroviamo un anno dopo questo Orchidee, quinto album dopo altrettante uscite fra EP e mixtape (tra le altre, una clamorosa collaborazione con Marco Polo) che è al momento qualcosa di unico nel panorama italiano. Non solo perché è un album rap suonato in studio; forse è il primo ma visto il successo e l’attenzione ricevuta di sicuro non sarà l’ultimo. Ma perché in primis non vuole più essere un album rap, o meglio soltanto rap. Già detto e ridetto in mille interviste, a Gianluca piace il soul e l’R&B ed è impossibile far finta di non accorgersene.
Ad accompagnarlo in questa piccola rivoluzione musicisti di tutto rispetto, serva soltanto citare i nomi di Rodrigo d’Erasmo, già in forza agli Afterhours e collaboratore di mezza scena indie e non italiana compreso il precedente hip hop con Fritz da Cat, di Enrico Gabrielli & Fabio Rondanini dai Calibro 35 e Patrick Benifei dei Casino Royale. In compenso nessun ospite al micrfono, nemmeno gli amici della Unlimited Struggle, segnale forse che questo è il primo tassello di un Ghemon finalmente musicalmente maturo. E quindi non tanto egoista da non voler dividere la scena ma piuttosto abbastanza sicuro di se da reggere un album senza accompagnatori e featuring.
Il disco si apre con Adesso sono qui e non riesco a far passare una manciata di secondi senza che beat e flow mi portino prepotentemente alla memoria il Neffa solista. Eccolo forse, ecco chi è il vero padre nobile del Ghemon 2014, il Neffa che lasciava a bocca aperta con due album da antologia. Però più che padre spirituale è meglio parlare di ispirazione altissima perché qui, a parte qualche accenno che suona quasi come un tributo ammirato, di originalità e personalità ce n’è da vendere.
Alcuni dei brani più forti trovano la loro ragione d’essere in virtù di un’alternanza virtuosa fra parti rappate e parti cantate, ennesimo segnale di una strada che ormai è intrapresa e dalla quale difficilmente si tornerà indietro. È il caso dell’hip hop melodico dell’incontro fra due opposti che si attraggono di Da lei (Con lo scudo e la spada), fra storytelling in chiave rap (Lui è così grande che per spalle ha due montagne e due pilastri per gambe / cemento armato / colla a presa rapida nel sangue) e slanci cantati, con un’attenzione speciale al ritornello. Altrettanto fa Crimine dove Ghemon rappa e canta accompagnato da batteria e pianoforte.
I momenti più intimi ed intimisti si trovano con Il mostro, storia di un litigio doloroso tutto teso mediante metafore e incastri, adagiata su una base dal sapore old school e nelle dichiarazioni amare di Fuoriluogo ovunque (E lo so che sto mentendo a me per primo / è il tipico comportamento passivo aggressivo / è la stessa storia ripetuta sempre / faremo poi, ma viviamo mentre, / solite feste piene di gente/ che cazzo ci trovano di divertente?).
Pomeriggi svogliati apre il bellissimo trittico posto in chiusura e, più semplice, più essenziale di altre canzoni, mi sembra il classico pezzo per quando fumo un po’, scosto via la tenda / cielo grigio piombo io non lascio che mi prenda. Veleno è puro soul con cori sui quali schioccare le dita e dolore nel sangue, L’ultima linea fa emergere l’anima brasiliana dei collaboratori Selton: d’altronde in un campionario di dolce malinconia come Orchidee poteva mancare l’immagine del sorriso mesto della bossa nova? Che questo pop d’autore, adulto, istruito e ricco di sfumature sia il futuro biglietto da visita di Ghemon? Staremo a vedere.
A volte si corre addirittura il rischio, raro per un album cantato nella nostra lingua e quindi immediatamente recepibile, di farsi portare via dalla bellezza delle basi tralasciando quasi il testo, canticchiandolo senza dargli troppo peso; attenzione a non fare questo sbaglio perché Ghemon si conferma ancora come un ottimo equilibrista delle rime e la varietà di sonorità e riferimenti musicali che animano questo lavoro, coadiuvati da una scrittura pulita, onesta e spontanea, aiutano nel trattare temi non straordinariamente originali senza scadere nella noia: scritture autobiografiche, l’amore, vita più o meno quotidiana.
Orchidee è il suono degli A Tribe Called Quest vent’anni dopo il loro debutto, fuori dalla giungla di cemento e scaldato invece da un’anima mediterranea che ricorda con i fatti l’ammirazione del Picariello per Pino Daniele, un altro che con certa musica d’oltre oceano ha sempre avuto le mani in pasta. Mancano le rivendicazioni politiche e/o stradaiole che lasciano invece il posto al quotidiano. È la nascita del jazz rap italiano? Di sicuro è la rivincita dei buoni.