Oscuro, potente, sfacciato, elegante. Si potrebbe riassumere così Aleph, primo album di Mike Lévy a.k.a. Gesaffelstein, arrivato a tre anni dalla sua prima uscita discografica e dopo una lunga serie di EP, remix di successo (Justice, Lana Del Rey, Cassius, Miss Kittin, Depeche Mode solo per citare i più noti) e collaborazioni eccellenti: oltre al collega Brodinski con il quale abitualmente condivide i piatti, anche lo storico producer e DJ The Hacker e, ultimo ma solo in ordine temporale, Kanye West, per il quale ha lavorato sui beat di Send It Up e Black Skinhead insieme al già citato Brodinski e ai Daft Punk. Non proprio bazzecole.

I primi tre brani del disco, escludendo Out of Line (più che altro un’elaborata, movimentata intro), mostrano chiaramente le due-tre linee sulle quali si muove tutto l’album. Pursuit è pura techno abrasiva con tanto di cori dal sapore a metà tra il tribale e l’industrial: l’inquietante video, diretto da Fleur & Manu e giocato interamente sui toni del bianco, del nero e dell’oro non fa che rafforzare l’abrasività del brano, quasi un breve compendio dell’immaginario al quale si rifà Gesaffelstein, da immagini militaresche al più classico mondo della moda, quasi fosse un Dimitri from Paris molto meno rassicurante e piacione. Nameless (che, per inciso, sta ricevendo accuse piuttosto serie di plagio in quanto fin troppo simile a Rain of Petals del producer emergente cileno Visonia) abbassa notevolmente i toni spingendosi ai confini della ambient techno. Con Destinations invece il nostro dimostra quanto a fondo la lezione impartita da due maestri come Miss Kittin & The Hacker sia stata recepita: su una base martellante ma mantenuta sottotono, quasi definibile come un caos calmo si innesta una linea vocale femminile ripetitiva, ossessiva. Si potrebbe tranquillamente scambiare Destinations per un estratto da First Album se fosse uscito nel 2013 invece che dodici anni prima.

Le influenze subite da Gesaffelstein nella produzione di Aleph non si limitano alla techno classica: le soluzioni più ruvide e le massicce distorsioni di Trans sono figlie legittime dell’industrial/EBM europea anni ’80. Gli sprazzi di electro si sprecano un po’ dappertutto a movimentare il tono generale, insieme alle irruzioni improvvise di toni alti, quasi sirene d’allarme o perfino chiare reminescenze dall’hip hop classico che arrivano brusche e si dileguano altrettanto rapidamente lasciando il posto al beat elettronico, si veda Hellifornia.  Sorpresa gradita sono i brani wannabe-ambient/techno, i quali però rappresentano al tempo stesso una piccola magagna: da un lato rendono più variegato un album che rischiava di essere un ininterrotto tunz tunz (e chi scrive, onestamente, non se ne sarebbe troppo lamentato), dall’altro lato è straniante l’alternanza tra un brano che in chiusura lambisce i confini del noise e uno che invece sfoggia beat minimali e cori gregoriani, nello specifico la traccia che dà il titolo all’album: un incontro tra i Kraftwerk e il Jerry Goldsmith della colonna sonora di The Omen. Oppure ancora terminare l’album con una Perfection che per quanto sottilmente inquietante e ben riuscita non è la chiusura col botto che sarebbe stato legito immaginare. Sebbene l’ispirazione non manchi praticamente mai, ne risente l’atmosfera generale che non risulta mai univoca.

In definitiva un’opera riuscitissima: non solo non manca niente, ma vengono perfino forniti più stimoli all’ascoltatore di quanti ce ne si aspettava. Da limare forse alcuni aspetti dovuti all’alternanza delle due anime principali che convivono in Aleph ma per tutto il resto l’attesa e l’hype per questo album sono stati ampiamente ripagati da un lavoro solidissimo.

Recommended tracks: Hellifornia, Obsession