Non bastavano 4 anni di attesa, no. Frank è infinitamente stronzo perché anche quando pubblica il disco ci vogliono altri tre lunghissimi minuti per poter riascoltare la sua voce pulita e limpida nell’introduttiva Nikes.
Tre minuti in cui si ha una spiegazione (plausibile) di quel post che fece sul suo Tumblr nel luglio del 2015: “I got two versions. I got twooo versions…”. Ocean indossa un paio di Nike (le TN, dette anche “le squalo”, ndr), ha in mano due versioni di un magazine intitolato Boys Don’t Cry e ci sono due immagini nel post.
Un anno dopo troviamo un brano dal titolo Nikes in cui una voce filtratissima annuncia “I’ve got two versions“, due versioni dell’album intitolate Blonde e blond, che sembrano riferirsi alla bisessualità di Frank (blond si usa per i ragazzi, blonde per le ragazze, ndr). La prima versione è disponibile digitalmente solo su Apple Music, la seconda è presente come copia fisica solo nel magazine Boys Don’t Cry in esclusiva temporanea in quattro store in tutto il mondo. Inoltre ambedue le versioni sono uscite per Boys Don’t Cry, etichetta indipendente creata all’ultimo momento da Ocean.
Svelati e bypassati gli arcani, c’è un disco di un’ora piena (versione digitale) da ascoltare.

Se il decennio corrente è stato contrassegnato dalla musica creata e registrata in cameretta – spacciata però come composizione orchestrale – in Blonde succede il contrario: anni di produzioni e arrangiamenti per poi ottenere un disco di un minimalismo assoluto, in cui le percussioni sono praticamente assenti e dove tutto ruota intorno al legame intimissimo tra Frank e quei pochi strumenti. Ne sono l’esempio Solo e Self Control, pezzi da pelle d’oca in cui Ocean fa l’amore rispettivamente con il suono di un organo e con una chitarra slappata. Il tutto circondato da un grande silenzio che, per assurdo, riempie perfettamente i vuoti lasciati dall’assenza di altri strumenti.

Anche questa volta il mondo cantato da Frankie non è così felice ma, se prima almeno provava a tirarci su il morale con melodie e suoni allegri (come in Lost e in Pyramids), in Blonde non c’è niente da fare: è malinconia e nostalgia canaglia allo stato puro: nelle melodie, nelle note, nei suoni e, ovviamente, anche nei testi.
I thought that I was dreaming when you said you loved me” in Ivy è il punto cruciale del disco: un ragazzo, oramai cresciuto e con qualche esperienza in più, che ricorda la sua vecchia fiamma e ammette di non essere stato in grado di cogliere tutte le emozioni e i veri sentimenti di quella relazione iniziata per caso e finita con quelle mille domande a cui non riuscirai mai a dare risposta, neanche dopo qualche anno. Proprio riguardo alle diversità tra Channel Orange e Blonde un utente su internet ha descritto perfettamente tutto in due righe: “Channel Orange: dovrei fare l’amore con la mia ragazza. Blonde: dovrei chiamare la mia ex“. Mai un riassunto così corto fu così tanto esplicativo.

L’album è anche pieno di enormi collaborazioni, sia in produzione che nei testi che nelle parti cantate. In produzione abbiamo, tra i tanti, Jamie xx e ROSTAM dei Vampire Weekend (Ivy), Pharrell Williams (Pink + White) e Tyler the Creator (Pink + White, Skyline To).
Tra i co-scrittori e le parti cantate invece troviamo invece Beyoncé, Kendrick Lamar, Yung Lean, André 3000, Sebastian, James Blake, Playboi Carti. E, come se non bastasse, Frank ha aggiunto qualche sample qua e là con Flying (in Seigfried) e Here, There and Everywhere (in White Ferrari) dei Beatles, Close To You di Stevie Wonder (in Close To You) e A Fond Farewell del compianto Elliott Smith (di nuovo in Siegfried).

Blonde è un album che può sembrare un prodotto Apple (con la quale, tra l’altro, Frankie ha collaborato anche per Endless, il visual-album uscito il giorno prima di Blonde): ricercatissimo e costruito alla perfezione con i migliori materiali, ma che colpisce soprattutto per la sua semplicità e il suo “less is more“. Un less che ha spiazzato un po’ tutti (dati i precedenti lavori così ricchi, sovraccarichi di suoni e di strumenti) e che diventa difficile da digerire anche perché non è un lavoro prettamente pop. Sì, perché non c’è traccia di singoloni radiofonici o hit da classifica e questo è proprio uno di quei less che funzionano alla grande.
Invece, c’è molto altro nel disco: il gospel di Godspeed, la talkbox di Close To You (che riprende appunto la versione di Stevie Wonder del 1972), l’intermezzo Solo (Reprise) rappata interamente da André 3000, Sebastian che racconta una triste e attualissima (nonostante sia collocabile alla fine degli anni ’00) storiella con una sua ex, la telefonata di una madre in Be Yourself che raccomanda al figlio di non drogarsi ed infine c’è Nights.
Nights è un capolavoro, non solo musicale, in cui vengono raccontati i pensieri e ciò che accade a Frank di notte, in contrapposizione alle raccomandazioni della madre (non sua, ndr); infatti con “Wanna see nirvana, but don’t want to die yeah” Ocean ammette di drogarsi per vivere il paradiso senza dover morire. La canzone inoltre divide perfettamente Blonde in due parti (“two versions“?), tant’è che al minuto 3:30 (ossia a metà esatta del disco) finisce una canzone e ne inizia un’altra dove a cantare è sempre Frank, ma con la voce abbassata di due mezzi toni.

Frank Ocean stupisce ancora e dimostra che questi quattro anni di attesa sono valsi la candela. Blonde è un album sorprendente da qualsiasi punto di vista; è la definitiva consacrazione di un artista che, hype o non hype, dimostra di avere i piedi ben piantati a terra e la volontà di far parlare solo ed esclusivamente la propria musica. Bentornato Christopher.

Tracce consigliate: Ivy, Self Control, Nights, Futura Free