Dopo un disco d’esordio che ha vinto mille mila premi discografici d’Australia (e vabbè, grazie, è l’Australia) e un gradito ricordino con l’EP di tre tracce Lockjaw insieme all’amicone australiano (ancora!) Chet Faker, il venticinquenne Flume torna alle luci della ribalta sempre per la Future Classic, provando a sbancare conquesto  Skin.

Ecco, sbancare magari sbancherà, ma qui Skin non è piaciuto per nulla. Il giovane Harley Edward Streten cerca di ampliare il proprio suono, per dirla in maniera edulcorata. Edoardo tenta l’avvicinamento carpiato al suono dell’EDM, approcciando le tendenze musicali elettroniche del momento – trap (Wall Fuck con quei bassoni distorti) e hip-hop in particolare – ma rendendole cialtronesche ed insensate, pappa innocua da ragazzino al festival musicale estivo statunitense che non conosce bene neanche i dischi degli headliner. Insomma Flume, con l’attenzione mediatica dopo un primo disco discreto e l’EP con uno degli uomini del momento Faker, decide di non sfruttare questi occhi puntati addosso per azzardare musicalmente, anzi: si rifugia nel già sentito cronico. Skin dura un’oretta e, nomen omen, è superficiale come pochi, scivola addosso e si dimentica facile.

Si contano un po’ di collaborazioni, come da prassi per l’album cialtronesco e acchiappone, comprese un paio con tale Kucka, che io credevo solo centrocampista del Milan dai grandi polmoni e piede pesante, Vince Staples, Raekwon, Little Dragon, e Beck; quest’ultima ha l’unico merito di chiudere il disco, dopo un’ora di insensatezze scialbine e già sentite. E lo so, si potrebbe dire “eh, ma è un bel disco, è fatto bene, non c’è niente da dire sulla produzione e sul target” e invece no, non mi sento di dire che questo di Flume è un bel disco: Flume è Avicii per chi una volta ha ascoltato Neon Bible degli Arcade Fire e dice in giro che gli è piaciuto ma non è vero, manco si ricorda le tracce.
Skin è il prodotto mediocre di chi potrebbe fare molto, e avrà successo lo stesso. Quindi, doppia dose di vergogna Edoa’.

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