La voce di Emily Loizeau è così sottile ed elastica che la si potrebbe attorcigliare tutta formando un filo lungo lungo; lungo almeno come la strada che c’è fra qui e la stazione di Roma Termini. Il passo successivo è quello di posizionarsi a bordo strada col capo del filo tra le mani a cercare di infilarne l’estremità nei coni cavi delle orecchie dei passanti.
È più che lecito pensare che qualcuno potrebbe gradire, ma in linea di massima credo che la cosa sia capace di recare un po’ di fastidio ad almeno un pezzo di popolazione, lo dico sinceramente.
Quando Emily Loizeau agita la gonna vuol dire che sta cantando.
Se la agita lenta, alzandola un po’, col ginocchio che disegna un cerchio sotto, allora vuol dire che sta cantando Mothers and Tygers.
Mothers and Tygers è il suo ultimo album.
Il dato tecnico: Mothers and Tygers, quarto album in studio della cantautrice, è composto da 15 tracce alcune delle quali carine, altre un po’ meno, alcune delle quali cantate in inglese, altre in francese e, cosa quantomeno curiosa, quelle in francese sono molto meglio di quelle in inglese, è una costante. Il genere è un pop-folk d’annata, uno di quelli che parte con Brassens e arriva all’ultimo periodo dei Noir Desire (quelli soft). La band è formata, strumento più strumento meno, da chitarre acustiche, chitarre elettriche, banjos, pianoforti, contrabbassi, violini e violoncelli, cori, batterie spazzolate, ecetera.
Le canzoni hanno una struttura standard, una strofa seguita da un ritornello, e così via, molto spesso è più facile ricordarsi la strofa del ritornello, ma con questo non voglio dire niente.
Il pezzo migliore? Senza dubbio quello che hanno scelto di far girare prima di tutti gli altri con una valida motivazione, quella di essere semplicemente più carino degli altri: Vole le chagrin des oiseaux, che non significa niente, son sicuro.
Il dato umano: credo che oggi, a 37 anni, (anno più anno meno), Emily abbia perso gran parte del suo fascino giovanile. Credo che l’album sia ben costruito, ben arrangiato, ma ad un certo punto dici “Questo secolo è peggio di quel che temevo, pieno medioevo” (Morselli, 2011, tr. 4).
Credo che Emily abbia voluto fare un album bello davvero, ma non ci sia riuscita. Credo che Emily si perda un po’ troppo in quella sua bella malinconia da filosofia casalinga dilettandosi a citare William Blake o cose del genere, e credo che sia solo un modo per celare un’evidente pochezza di contenuti.
Resta comunque un disco d’ascolto facile da consigliare nelle macchine degli altri.