Per affrontare l’ascolto di questo doppio album Drifters/Love Is The Devil, successore dell’acclamato Badlands (2011), bisogna prepararsi psicologicamente per entrare nella testa di Alex Zhang Huntai e vivere un viaggio allucinato in una metropoli notturna. Luci al neon sbilenche illuminano a intermittenza scenari angoscianti, i quali si traducono in una resa musicale ancor più cupa dell’album di debutto, ma allo stesso tempo più ricca e variegata, in cui quel rock’n’roll 50s deviato e distorto permane solo come base di un tutto che evolve – o involve, a voi la scelta – verso nuovi territori ambient lungo il procedere dell’ascolto.
Night Walk (così come Casino Lisboa, primo singolo estratto con annesso video tormentato) pare uscita direttamente da Badlands: ambientalismi chitarristici figli del bluesy-rock anni 50, riverberi esasperati e voce ridondante. Ciò che balza all’orecchio è però la vera novità di questo Dirty Beaches, ossia l’elettronica: a battere il tempo troviamo una drum machine ripetitiva che ci immerge ancor più in un clima ansiogeno.
La potenza visiva è già impressionante, tanto che non servirebbero nemmeno gli eloquenti titoli per farci delineare nella mente gli scenari che Alex vuole dipingere. Il mood da telefilm anni ’80 traviato è mantenuto alto da I Dream In Neon e portato all’estremo con Belgrade, tutta synth che implodono nel finale.
Il viaggio procede febbricitante con ELLI e la sua paranoica batteria 8-bit, sino allo schianto finale contro il francese di Aurevoir Mon Visage e il delirio ispanico da 10 minuti di Mirage Hall (“Estoy loco, estoy loco, sí, sí. Yo te quiero, yo te quiero, sí, sí”) che ruba i bassi all’electro-underground berlinese.
Questo episodio sancisce la fine di Drifters e ci fa risvegliare nel secondo album, Love Is The Devil, in cui il cantato viene abbandonato (se non per una fugace apparizione in Like The Ocean We Part) in favore di ambient strumentali che rimpiazzano l’inquietudine iniziale con un altrettanto estraniante sentimento di malinconico abbandono.
Ci lasciamo trasportare quindi in questo mondo malignamente lisergico in cui nove tracce ci cullano in maniera beffarda: dalle chitarre (la già citata Like The Ocean We Part) al pianoforte (This Is Not My City) e agli organi sintetici (I Don’t Know How To Find My Way Back To You), rumorismi elettro-analog (Woman) e archi fumosi (Love Is The Devil).
Un insieme di ballad ambientali e fosche che arrivano a trasudare, per assurdo, anche tenerezza, facendoci provare empatia per un artista che parrebbe avere la volontà di parlare d’amore in un altro modo, ma purtroppo per lui Love Is The Devil.
Si chiude sulle dolci melodie di Berlin (città in cui parte dell’album è stata registrata) questo doppio viaggio, che definire doppio è forse un’imprecisione. Nonostante lo slash nel titolo infatti, il percorso acquisisce un senso più definito proprio nella convivenza dei due lavori che non collidono, bensì evolvono proprio come succede alla trama di un film.
Alex ha un modo tutto suo di esprimersi, alle volte – volutamente – caotico e confusionario, spesso mediato da una resa sonora difficilmente accessibile.
Ma Drifters/Love Is The Devil, se analizzato nell’ottica di un progetto che vuole fotografare un certo tipo di realtà tanto mentale quanto concreta, a cui vanno aggiunti poi il “nuovo” sentimento romantico e i nuovi elementi compositivi elettronici, è sicuramente una prova convincente che vi ripagherà del tempo e dell’impegno spesi per avvicinarla, viverla, comprenderla, interpretarla.
Tracce consigliates: I Don’t Know How To Find My Way Back To You, Mirage Hall.