Era naturale e prevedibile che una mente vulcanica e poliedrica come David Lynch si mettesse prima o poi a fare musica sul serio; non era difficile indovinarlo perché nessun altro musicista avrebbe potuto esprimere meglio di lui stesso il concetto di “lynchiano” in musica – nell’accezione che l’aggettivo ha assunto nel linguaggio comune.

David Keith Lynch, dopo 34 anni di carriera cinematografica, dieci lungometraggi, una miriade di cortometraggi e qualche lavoro televisivo – su tutti la celeberrima serie Twin Peaksinizia nel 2011 la sua vera carriera musicale, con Crazy Clown Time, disco dai toni inquietanti, accolto in modo discordante dalla critica.
The Big Dream quindi, se escludiamo le varie collaborazioni ad esempio con Danger Mouse, Sparklehorse o con Angelo Badalamenti, è la sua seconda “vera” prova discografica – a 67 anni suonati – e segna un parziale cambio di rotta: vengono abbandonate quasi tutte le velleità elettroniche, che spuntavano qua e là in Crazy Clown Time, per abbracciare le desertiche sonorità tipiche del blues rock della tradizione americana.

Nonostante la musica del genio di Missoula sia parecchio sui generis, volendo a tutti i costi far paragoni, essa risulta molto simile a ciò che si otterrebbe facendo suonare del buon vecchio blues ai The Cramps. Lynch stesso ha definito lo stile di quest’album “modern blues”, seppur di realmente moderno presenta quasi solo l’angoscia.
In realtà, anche l’analisi di questo LP diventa particolare, poiché ciò che ci si aspetta dalla musica del regista statunitense, a prescindere dal genere, è che essa abbia le caratteristiche necessarie per poter essere definita “lynchiana”.
Per una definizione del termine stesso, mi affido alle parole del mai dimenticato David Foster Wallace: “una definizione accademica di «lynchiano» potrebbe essere che il termine «si riferisce a un particolare tipo d’ironia in cui il molto macabro e il molto mondano si combinano in modo tale da rivelare il perpetuo contenimento del primo all’interno del secondo». Ma come postmoderno o pornografico, «lynchiano» è una di quelle parole (…) che sono in definitiva definibili solo per come appaiono — ossia, lo si conosce quando lo si vede.”

L’esordio Crazy Clown Time era appunto un album decisamente lynchiano e sperimentale, ma ampiamente perfettibile; The Big Dream è semplicemente migliore sotto tutti gli aspetti, a partire dalla coerenza stilistica, fortissima in questo disco psych-blues, talmente rarefatto da risultare onirico e anestetizzante. Laddove la sua prima prova discografica risultava prolissa, la seconda è diretta e concisa, sia nelle sonorità che nelle asciutte liriche, e ovviamente meno sperimentale: ma non bisogna considerarlo un male, perché in fin dei conti nulla è più inquietante e straniante di un “semplice” blues come Sun Can’t Be Seen No More, oppure di un pezzo alternative rock come The Line It Curves, o della cover di Bob Dylan The Ballad of Hollis Brown.
Il limite forse più evidente di questo lavoro è forse la monotonia della voce nasale e processata di Lynch, che, seppur necessaria alla riuscita dell’opera, può stancare: la fantastica collaborazione con Lykke Li (quella di I I follow…) nella bonus track I’m Waiting Here – pezzo perfetto per una serata alla Roadhouse di Twin Peaks – avrebbe potuto essere estesa ad altre tracce per alleggerire l’insieme, ma pazienza, non è un dramma.

Sarebbe riduttivo dire soltanto che questo album potrebbe fungere perfettamente come colonna sonora di un film del suo compositore, perché The Big Dream è un vero e proprio film senza immagini, le quali devono essere partorite dal nostro impero della mente, proprio come i passaggi apparentemente confusi o mancanti nelle trame delle fatiche cinematografiche di David Lynch.

Recommended tracks: The Line It Curves, I’m Waiting Here.