Boy è il nuovo album di Carla Bozulich. Oltre alle uscite sotto il proprio nome, è stata, leader degli Evangelista e dei Geraldine Fibbers, ha suonato con il marito Nels Cline ed ha collaborato come vocalist con un gran numero di artisti, dagli Xiu Xiu a Lydia Lunch. Boy, che è il più recente tassello di una carriera ormai trentennale vissuta all’insegna dell’eterodossia, è un album pop, o almeno così ci ha detto la sua stessa autrice. In realtà è una definizione probabilmente involontariamente sarcastica: non filtra nessuna luce nei tre quarti d’ora d’ascolto ma solo una generale angoscia e pesantezza.
La discografia solista, Carla Bozulich l’ha inaugurata dieci anni fa coverizzando l’album che aveva reso un mito quello che già era uno dei migliori artisti country del periodo (e della storia), quel capolavoro di poetica della frontiera che è stato Red Headed Stranger di Willie Nelson. Su Boy la musica country torna a farsi sentire, non nelle vesti logore dell’outlaw ma con lo spirito delle sue declinazioni più oscure, quella scena alternative/goth che trova nei 16 Horsepower i rappresentanti più affermati.

Che non sia un album solare si intuisce già da Ain’t No Grave, blues country elettrico dal ritornello irresistibile.
Assurdo approdare subito dopo un brano che rasenta l’industrial come One Hard Man, registrata nell’appartamento di uno dei due co-fondatori della Constellation Records, e molto più vicino alla musica del terzo corso dei Death in June, quello dell’incontro discografico con Albin Julius che a qualcosa di assimilabile a quanto presente nel resto di Boy, con il folk messo in un angolo a favore di cattiveria e grigia ripetitività senza che si scada mai nella noia.
La Bozulich non soltanto canta ma suona gran parte degli strumenti presenti: è tuttavia la sua voce la grande protagonista, distorta, alterata, ovattata dal riverbero, usata e abusata con sfoggio di sicurezza. Ad accompagnarla su gran parte delle tracce il sempre ispiratissimo drumming di Andrea Belfi che non perde il modo di farsi notare, con i cambi di tempo di Ain’t No Grave, o l’accompagnamento blueseggiante su Deeper than the Well e un’assoluta capacità di non passare mai inosservato pur restando talvolta in secondo piano.
Punto altissimo, forse il migliore dell’album, è Lazy Crossbones, che sarebbe quasi da fischiettare se non fosse per la complessità della canzone stessa che non si coglie al primo impatto ma che richiede attenzione, fra le chitarre che grattano e le vocals sovrapposte, confusionarie.
Unico episodio non memorabile rimane la l’interpretazione classicamente folk/country What Is It Baby, comunque dignitosa ma che manca della scintilla necessaria a farla brillare in un album di eccellenze. Chiusura quasi solo strumentale per synth e batteria con Number X, un modo di concludere l’album forse leggermente sottotono, forse non aspettato ma indubbiamente l’ennesima sorpresa pur in linea con il resto dell’ascolto.

Ci viene proclamato come un album pop, ma è meglio definirlo come solo ottima musica, come suona nelle mani di chi sa manipolarla a dovere e nonostante le distorsioni, gli incantevoli riverberi e i brevi momenti al limite con il grunge a farne uscire un’anima romantica e a modo suo dolce, tragica. Passano gli anni, passano i progetti musicali ma non passa la capacità di stupire, affascinare, perfino ammaliare di Carla Bozulich. Con Boy, la sua nuova personalissima creatura, dalla composizione fino al mixaggio e alla copertina (magnifica e già da sé esplicativa del contenuto) ancora una volta questa signora dimostra di non avere finito le idee, tutt’altro.

Tracce consigliate: Lazy Crossbones, Deeper Than the Well.