Allora, praticamente la storia è questa: Alicia Bognanno è una secchiona per quanto riguarda missaggio, registrazioni e tutti quegli spippolamenti lì, tanto che finisce a fare la stagista negli studios di Steve Albini a Chicago. Oltre a saper trattare il suono, Alicia sa pure suonare e cantare: quindi mette su una band (i Bully, per l’appunto), e dopo i primi singoli c’è subito la firma con la Columbia. Le cose vanno… benino? Il primo album, Feels Like, viene accolto positivamente da critica e pubblico, ma Alicia non è convinta. Il rapporto con la major si interrompe, arrivano la firma con Sub Pop e il secondo album, Losing, più maturo e personale del debutto, ma figlio di un momento non proprio felicissimo.

Fast forward a oggi: i Bully non sono più una band, ma il progetto solista di Alicia, che ha appena pubblicato il terzo album, intitolato SUGAREGG. Il disco è bello incazzato, più dei precedenti, e la voce stavolta gratta come non mai. Sull’asta del microfono sono attaccati i santini di Hole, Superchunk e Distillers, l’attacco di Add It On è fulminante e destinato a conquistare tutti gli amanti di un certo tipo di chitarre, così come You è destinata a scatenare poghi violenti non appena ci si potrà toccare di nuovo. Continuando tra i pezzi migliori, Not Ashamed è una violenta invettiva contro un non ben specificato qualcuno (Un ex fidanzato? Un ex manager? La vecchia etichetta? Il governo americano?), mentre la conclusiva What I Wanted pare un pezzo delle L7 con il gusto melodico dei Cloud Nothings (cioè una delle migliori band da prendere in considerazione quando vuoi fare musica incazzata da cantare a squarciagola).

SUGAREGG non ha pezzi brutti, mettiamolo subito in chiaro; ma, oltre a quelli citati, sono pochi i brani capaci di lasciare un segno. Every Tradition, con il suo riff da mandare in repeat, oppure la successiva Where To Start, a quanto pare ispirata da Tubthumping dei Chumbawamba (io devo ancora capire dove). Già con Prism il cervello inizia a spappolarsi su una parete di plexiglass fatta di vecchi dischi di Waxahatchee, Chastity Belt, Cherry Glazerr, Diet Cig e via così, senza citare Celebrity Skin delle Hole, Distillers, Garbage, Sleater-Kinney eccetera eccetera, mentre pezzi come Come Down, Let You e Hours And Hours continuano a scivolarmi via nonostante gli ascolti ripetuti. Non è un disco di Bully a dover rivoluzionare l’indie rock, sia chiaro, stiamo parlando della cosa più difficile del mondo. Il passo da “figo, mi ricorda le Hole” a “forse è meglio riascoltarsi Violet” è più breve di quanto sembri.

E quindi SUGAREGG sta nel mezzo. Meglio di quei mille dischi anonimi che escono ogni anno di band tutte uguali tra loro e con zero personalità, pronti a scimmiottare la leggenda indie di turno, quello sicuro. Eppure non ancora al livello di band che la ruota l’hanno effettivamente girata, creandosi una nicchia dove stare, sopra la mediocrità generale: Cloud Nothings, Japandroids, Wolf Alice, la stessa Waxahatchee, i Wavves, un Ty Segall a caso. Sta nel mezzo, ma è già importante aver dimostrato di esserci, di essere rimasta sul pezzo con un pugno di ottime canzoni e una cazzimma niente male. Manca poco, Bully. E se Steve Albini ha creduto in te non vedo perché non dovremmo farlo anche noi.

Tracce consigliate: Not Ashamed, Every Tradition, You