In uno sfruculiare reciproco, cominciato quasi un anno fa, e in un ammiccare insistente, oggi possiamo parlare di collaborazione tra Brian Eno e Karl Hyde. Già nel 2013, infatti, Eno si era preoccupato del missaggio di Slummin’ It For The Weekend, traccia che è parte del primo album da solista, Edgeland, di Hyde. Strizzatina d’occhio. Tale embrionale comunella serbava evidentemente qualcosa di più grande che sappiamo oggi essere Someday World. Ora smancerie e carezze.

Ah ma i due sembrano parecchio affiatati e, in un fare affettuoso, si scambiano delle tenere battute che motivano le radici dell’album: “I had a big collection of ‘beginnings’ sitting around waiting for something to galvanise them into life, to make them more than just “experiments”. That something turned out to be Karl Hyde”, è Eno che parla. Hyde, dal canto suo, lusinga il compare con una lavorata sviolinata: “When Brian played me these early tracks it was, ‘Oh my god, this is home! Can I borrow a guitar?’”.

Someday World è il ciclico ripresentarsi, nelle linee essenziali, di frammenti di un incipit che già è stato, ma che evidentemente non è vuotato. È una raccolta, una collezione appunto, di sistemi che necessariamente devono allinearsi, sotto l’aspetto della loro struttura, all’ambiente circostante, ma che possono risultare in disaccordo e in conflitto con lo stesso per i tratti desueti e superati.
Someday World è come fosse un ampio contenitore che in sé riunisce racconti di vita vissuta, memorie, il fosforo e la creatività di Brian Eno e Karl Hyde. Dai Roxy Music agli Underworld; dalla musica ambient alla progressive house/trance; dal jingle all’avvio di Windows 95 a Born Slippy. NUXX che accompagna il monologo finale di Ewan McGregor in Trainspotting; dal glam rock alla cultura rave; dal “non musicista” e teorico musicale all’eclettico frontman del gruppo icona di parte di una generazione, quella degli anni ’90, rappresentata accuratamente in Human Traffic. La promiscuità del progetto appare ancora più marcata se si guarda alla quantità e alla qualità dei musicisti di supporto, tra i quali spiccano in particolar modo i nomi di Will Champion (percussionista dei Coldplay), Darla Eno (figlia dello stesso Brian), Andy Mackay (a suo tempo sassofonista e factotum dei Roxy Music) e, infine, il poco più che ventenne Fred Gibson (coproduttore dell’album).

Come santoni, Eno e Mackay, prossimi ai settanta, assieme a Hyde, quasi sessantenne, figurano la sagomatura di Someday World in una garibaldina commistione di elementi. Riesumato abilmente il synthpop dalla soffitta, una volta spolverato, vengono alla luce il sassofono contralto abbracciato dal consueto synth spigoloso e l’onirica voce, portata a un’estensione malinconica e fosca, che richiama tratti darkwave (The Satellites). Prova del fatto che il syntpop funga da chiave di volta e da filo rosso che tiene insieme il full length nella sua totalità e che, in questo, si possano riconoscere fattezze darkwave o, più in generale, new wave, è il quinto brano Strip It Down. Numerose sezioni di Someday World lasciano spazio all’interpretazione e alla scrittura briosa di Brian Eno (Daddy’s Car, per esempio; trascinata da un drumming sporco e dal riverbero confusionario del synthpop vestito di tastiere e sax), la quale si traduce sovente in un funky house ombreggiato e ubriacante (penso a Witness e a A Man Wakes Up: la prima, tuttavia inaspettatamente, corregge la rotta proponendo un intervallo electroclash e un vocal backing atono femminile; la seconda, invece, ossessa in un groove funky, tra piatti e giri di basso egocentrici). Who Rings The Bell, impregnata di progressive trance, è tra le tracce migliori dell’album: bass drum, loop grattato, bassline brillante e bordata di voci eteree.

Eppure io percepisco lo svanito profumo che nuove connessioni tra mondi slegati disperdevano nel lontano 1981. Tuttora mi sembra di distinguere l’eco del parlato musicato, e del sermone radiofonico in Help Me Somebody e dell’esorcista in The Jezebel Spirit. Ciononostante, nuovamente tra le mani tengo il canovaccio che vede interprete, in un conflitto saldante, sia l’elemento ambient sia l’elemento funky contaminato da materie folk mediorientali e nordafricane. Il solito valente Brian Eno, il meno abile, forse più sfibrato e con la voce soffocata, Karl Hyde, il quale supplisce il luminare David Byrne, e Someday World, che non è certo come rimanere con un pugno di sabbia, ma non può senza dubbio vantare la rilucenza di  My Life In The Bush Of Ghosts.
Che si chiami eterno ritorno, piuttosto che ciclicità storica, è pur sempre questo un sistema finito, con un tempo infinito, nel quale ogni combinazione può ripetersi infinite volte facendo sempre commuovere i nostalgici.

Tracce consigliate: Who Rings The BellDaddy’s Car.