Specter At The Feast è il settimo album in studio dei Black Rebel Motorcycle Club di Peter Hayes, dopo un silenzio di tre anni dal loro ultimo Beat The Devil’s Tatoo. L’evoluzione del sound dei BRMC è stata, nel corso del tempo, abbastanza complessa, debitrice tanto ad influenze shoegaze quanto alla psichedelia, e, se il precedente lavoro studio strizzava principalmente l’occhio alla scena americana e al root blues (complice anche il progressivo e sudato abbandono del vecchio batterista Nick Jago) questo nuovo Specter At The Feast ricorda stancamente i BRMC degli esordi.
Immancabilmente, come spesso accade per band prolifiche che non riescono tuttavia a raggiungere gli agognati picchi dell’eccellenza, questo nuovo disco risulta ad un primo ascolto piuttosto scontato e sicuramente già sentito, nonostante il sound e gli arrangiamenti sappiano nel complesso farsi apprezzare. Il disco si apre con Fire Walker, una (troppo) esaustiva enciclopedia degli stereotipi del mondo della psichedelia, e, con un atmosfera iniziale tanto ipnotica quanto forzata, fa subito appassire l’entusiasmo. La successiova Let The Day Begin è un onesto pezzo garage/blues, che, eliminata la posticcia e mal elaborata intenzione di sorprendere, rimane molto più fruibile e sincero. Non certo da riascoltare, ma neanche da farci pentire di averlo fatto. Della seguente Returning ci basta l’intro: un’organetto discreto e atmosferico sul quale si inserisco charleston, cassa in battere e cantato, per un pezzo che procede lento e assolutamente non interessante. Con Lullaby arriva la chitarra acustica, vera salvatrice di non pochi precedenti brani di Hayes e soci: conformemente agli standard vigenti per le ballad, dopo un intro soffuso e intimista arrivano batteria e chitarra elettrica, a comporre un pezzo che delude l’iniziale impressione positiva. Poteva essere bello, ma non lo è.
Con la successiva Hate The Taste i BRMC abbandonano il mid-tempo e tornano su un mood più genuinamente rock blues, con forti sentori garage e un ritornello da classifica, poco coerente con quello che finora è stato l’indirizzo del disco ma sicuramente più felicemente fruibile. I brani successivi Rival e Teenage Desease confermano l’ipotesi formulata in itinere: altri pezzi gradevolmente senza pretese, inseriti in un lavoro che poteva nel complesso essere un buon disco, un po’ troppo penalizzato dalla totale devozione verso un genere che fa la muffa, ma comunque gradevole e buono nel suo genere, se solo non ci fossero sparpagliati qua e là spunti e tentativi di contaminazione non riusciti come in passato. Il seguente Some Kind Of Ghost è uno slow blues arrangiato molto bene, che fa comunque sospettare la furba intenzione di occultare una certa carenza compositiva di fondo. I brani successivi non fanno eccezione da quanto già detto, e (eccezion fatta per Funny Games, che è un bel brano ma rimane purtroppo un episodio isolato) non cambiano sicuramente le carte in tavola.

Gli aspetti positivi di questo lavoro non mancano (ad esempio la coesione con la sessione ritmica, spesso lacunosa nei precedenti), ma, nel complesso, è un disco molto poco ispirato. Gli spunti ci sono, ma sono così radi e mal distribuiti da non riuscire ad influenzare minimamente il giudizio complessivo sul lavoro. Gli arrangiamenti e le dinamiche sono sempre molto ben gestiti (indispensabilmente viene da dire, dal momento che il quasi onnipresente blues deve proprio a questi ultimi la sua sopravvivenza), ma non riescono a rendere questo Specter At The Feast un lavoro interessante. E’ un album stanco, sicuramente poco alla ricerca di sonorità nuove, che tenta con furbizia e capacità di evitare la stroncatura presentandoci delle composizioni piuttosto carenti nella miglior veste possibile, proprio come quando ci si sforza di sorridere mentre si dà una pessima notizia.
La sufficienza c’è quasi, ma questo, visti anche i trascorsi dei BRMC, non è un buon disco.

Tracce consigliate: Let The Day Begin

5.9/10