Quando eri un bambino c’erano queste giornate lunghe, lunghissime, che non passavano mai. La maggior parte del tempo la passavi a fantasticare su cose assurde ed improbabili, a scoprire fatti irrilevanti sul mondo, ad emozionarti. La noia di quelle giornate. I tentativi di farle passare. Poi cresci ed il tempo accelera, le giornate si riempiono di cose da fare lo studio il lavoro gli amici e perdere tempo ti fa stare bene ma non è proprio la stessa cosa di prima. Non l’avresti detto, da bambino.
Passi le giornate ad assorbire tutto, con i tuoi sensi freschi che chiedono stimoli. Non per forza nuovi, ma che ci siano. Piangere è stupido e facile, ridere è stupido e facile. Visto da qui. Se ora pensare troppo a qualcosa significa passare del tempo cercando di migliorarla, da piccolo potevi girarci attorno per ore senza stancarti troppo, senza migliorare niente, per il gusto di farlo. Come quando insistevi sui disegni fino a farli diventare brutti.
Senti una certa nostalgia pensando a quei giorni, ma non sei sicuro di voler ritornare a certi momenti. La paura che provavi era vera, e forte come non lo è più stata. Non sei mai stato solo come alcune notti da bambino.
Listo o no / Hay un abismo dentro de mí.
L’arca, per definizione, è una scatola vuota da riempire col tempo. Un bambino, per forza di cose, è una persona che acquisisce gusti e convinzioni nel tempo.
L’idea di Arca, l’associazione tra il nome e l’oggetto, è in realtà quella di un guscio vuoto da riempire e svuotare di volta in volta. Quanto di te stesso hai buttato via col tempo e quanto è rimasto lì? Magari senza farsi avvertire.
Come il protagonista di Legion, convive sin da piccolo con una creatura nella sua testa che lo porta a credere di essere schizofrenico, tu (senza nemmeno i super poteri) convivi sin da piccolo con questa vocina nella testa che diventa sempre più forte e continua a chiederti: “Stai facendo bene?”
Alejandro Ghersi in questo disco decide di zittire quella voce e senza preconcetti né troppi tentativi di mezzo produce probabilmente il suo migliore lavoro di sempre (aspettiamo di vedere come invecchia). Per la semplicità di certe scelte e l’intensa emotività che trasuda ogni parola, per questo, viene in mente un bambino. Il cantato, novità per chi lo ha sempre conosciuto come produttore, espone i suoi pensieri senza protezioni o filtri. I testi, semplici e tristi, sono stati quasi interamente scritti di getto; le registrazioni sono dei one-take. Eppure difficilmente si può immaginare che un secondo tentativo avrebbe migliorato le cose.
Anche l’estetica cambia di passo con la musica. Dai corpi alieni e mutanti dei primi video, ora Arca utilizza la sua figura, solitamente nuda ed emaciata. Nei suoi video si vede sempre una qualche forma di violenza e sempre dal punto di vista della vittima. Un torero che muore, corpi tagliati, un volto pestato.
Quítame la piel de ayer / No sé caer / Los árboles mueren de pie.
Arca sfrutta l’esperienza ottenuta in anni di collaborazioni con gli artisti più all’avanguardia del nostro tempo per produrre un album istintivo e violento, in cui per la prima volta i brani sembrano avere un inizio ed una fine precisi. Un insieme di costruzioni corali (Saunter, Desafio) e monadiche (Coraje, Miel) con i soliti intermezzi strumentali (Castration, Whip) ad amalgamare il tutto.
A metà tra poesia e pratiche BDSM, l’album si rivolge al bambino e all’adulto in noi allo stesso modo ed usa l’arte come mezzo più comodo per comunicare, da tristezza a tristezza.