Appino è uno coi capelli ricci e senza barba che il più delle volte, se fermato per strada, non dice niente o finge di tacere giusto perché crede che le sue parole siano troppo preziose e sagge per regalarle a sconosciuti di fatto.
In fin dei conti, Appino è uno di quelli che devono convivere con un meditato senso di cantautorato imposto sempre per le mani, e rispondere per strada senza aver meditato un minimo sulle parole da usare comporterebbe, in effetti, un grande sforzo e parole probabilmente inappropriate per la situazione. Quindi forse è meglio tacere, lo riconosco.
Perciò va a casa, medita, e scrive un disco: Il Testamento.

Il Testamento, al di là dalla lampante deduzione suggerita dal titolo, è obbiettivamente un disco che andrebbe scritto da vecchi; è una sorta di letturizzazione della vita fatta da giovani dove invece di andare via uno alla fine resta nonostante tutto.
Il Testamento è quindi per lo più un disco fatto di parole, dove si dovrebbe dire che “finalmente sbuca fuori dalle tenebre zen l’Appino intimista e voyeur nei confronti di una vita che lo ha deluso ma allo stesso tempo gli ha dato tanto”, ma non lo dico no.
Diciamolo chiaramente, Appino, con la menata dell’autobiografismo post-adolescenziale, ha messo sul piatto una manciata di temi universali coi quali è facilissimo identificarsi e dire “Oh”; un po’ come quando nei film si trovano gattini e bambini o gattini con bambini.
Questa, signori miei, è una mossa scorretta.

Poi, vabbè, se scrivessi parole belle caro Appino io sarei anche dalla tua parte, siccavolo!, ma così però mi sento un po’ preso per il culo.
Voglio dire, per fare il cantautore credo bisogni dover vedere le cose in maniera diversa, da un altro punto di vista, dovresti farmi notare cose nuove, andare oltre le cose stesse.
E non puoi dirmi che l’amore ti fa innamorare e che senza stai male e che quando c’è stai bene e che dopo se ne va e stai male di nuovo, perché lo so già. Grazie.

Le parole di Appino mancano di spessore, è un dato di fatto. E può anche parlarmi della morte di Monicelli, ma come me la racconta lui la sento uguale al baretto.
Anche il cinismo va meditato Appino.
Appurato questo, diciamo che dal punto di vista musicale, al là di qualche brano, il disco, ahimè, funziona.
E funziona anche se è costruito a tavolino, con l’aiuto di un sacco di gente tra il Teatro degli Orrori e Afterhours, ricercando i tempi e i suoni giusti che vanno di moda, come quel cavolo di sinth che ogni tanto spunta che giuro sono pronto a scommettere non è stata un’idea di Appino.
Questo è quanto, il resto è scritto su Wikipedia, anche abbastanza bene direi.

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