“Mah non so, diciamo che gli italiani che cantano in inglese non credo che riescano a fare chissà quanta strada”… e non mi dite che non l’avete mai sentito dire a nessuno.

A dimostrarvi l’enorme cazzata che sta dietro questa affermazione ci sono gli …A Toys Orchestra che affrontano la loro sesta prova in studio, e pensate un po’? Sempre tutto scritto, cantato e concepito come se arrivasse direttamente dall’oltremanica.
E si perché oltre alle liriche c’è proprio l’attitudine, la sfrenata passione per il britpop e le vecchie colonne portanti di quello che è considerato uno dei panorami più floridi e ricchi di talenti di ogni epoca.
Ma non vi ho ancora detto tutto; questa volta Enzo Moretto, Ilaria De Angelis, Andrea Perillo e Raffaele Benevento hanno voluto mirare davvero in alto: incoraggiati dal materiale pronto per questo Butterfly Effect, supportati da una realtà decisamente florida che ha piena fiducia in loro quale Urtovox/Ala Bianca e aggiunto un “tuttofare” (come se non ce ne fossero già abbastanza) tale Julian Barrett, si sono spinti a Berlino sotto la guida esperta di Jeremy Glover per la registrazione di questo ultimo lavoro. Più che giustificata la scelta a questo punto della loro carriera.

Il disco parte con Made To Grow Old, all’olfatto sa un pò di anni ’80 ma al palato lascia un retrogusto indie-rock dei nostri giorni, un pò alla Foster the People per capirci, niente male ma siamo solo all’inizio. Fall To Restart ci catapulta dritti in determinate superproduzioni che stanno facendo la fortuna di questo genere, su tutte The Suburbs degli Arcade Fire.
Always I’m Wrong, musicalmente sbarazzina e piacevole, al primo ascolto non rimane facile da digerire quel salire di tonalità nell’ultimo inciso, ma poi ci si fa l’abitudine e tutto scorre piacevole e senza troppi problemi. L’elettronica prende possesso di My Heroes Are All Dead ed è un piacere il crescendo finale, batterie mastodontiche, tappeti di cluster soffusi e il risuonare costante del cantato. Si cambia approccio, Mirrorball è rockeggiante ma piacevolmente farcita di elettronica, si lascia ascoltare anche se ad essere sinceri non risalta nell’insieme.
Wake Me Up è una galoppata, si inizia con lo stretto indispensabile e si prosegue con un arrangiamento calibrato alla perfezione; Come On, Get Out cassa in quarti e chitarre acustiche in attesa di un crescendo che non si fa attendere, tutto bello. C’è ancora da tendere le orecchie perché sta per partire Quiver, una super ballata nella quale dominano i sequencer accompagnati da chitarre ambientate e una parte ritmica riscaldante, sicuramente una delle perle dell’intero disco.
Con Mary si esplorano di nuovo i territori a stelle e strisce ma stavolta in chiave blueseggiante, sulle orme dei Black Keys. Take My Place e All Around The World chiudono questi quaranta minuti o poco più di ascolto, lasciandoci soddisfatti ma allo stesso tempo un pò perplessi.

C’è ancora molta strada da fare per raggiungere un’identità vera e propria, fatto sta che i primi passi in tale direzione sono stati già mossi e si percepisce senz’altro dalla qualità indiscutibile delle composizioni. Il disco in se poteva suonare ancora meglio e troppi riferimenti, se non amalgamati con criterio, possono distogliere l’attenzione anziché attirarla. Ma nonostante tutto, si sta parlando di una band con potenziale davvero alto e dalla quale ci si può aspettare il capolavoro, buon disco ma non ancora a livelli così alti.

Traccia consigliata: Quiver.