Uno potrebbe pensare che per gli Animal Collective dare un seguito a un album come Merriwheater Post Pavilion non sia stato facile. Dopo l’ottavo album al culmine di una carriera decennale contornata anche da diversi side project, spesso di qualità pari a quella della band madre (Panda Bear) le cose sono cambiate: tramite la virata più elettronica della carriera i quattro drogatelli di Baltimora sono arrivati a sublimare la loro psichedelia sperimentale a un altissimo livello pop, conquistando un seguito sempre maggiore e consolidando il loro status di band più influente dello scorso decennio. Uno potrebbe pensare che dare un seguito a un disco del genere non sia stato facile, ma per gli Animal Collective sembra sempre tutto facile.
Certo Centipede HZ si è fatto attendere come mai prima: tre anni e mezzo, che sembrano ancora di più se contiamo che i primi sei album della band sono usciti in sei anni; gli altri due sono usciti un anno sì e un anno no, ma saranno state le tempistiche di un’etichetta più grossa. In generale si può dire che gli Animal Collective hanno sempre messo al primo posto l’urgenza del rendere pubbliche le loro composizioni piuttosto che cercare di creare l’album perfetto per accontentare chissà chi. E invece di album perfetti ne hanno fatti un bel po’, ma dare un seguito a MPP è diventata anche la sfida di provare chi si è veramente: o si replicava il successo con un seguito adeguato oppure ogni altra mossa sarebbe stata vista come una caduta.
In questi tre anni e mezzo non sono stati certo con le mani in mano, comunque: Deakin è tornato a casa, hanno fatto uscire quel trip audiovisivo che è ODDSAC e poi si sono tutti concentrati sui loro progetti solisti (tranne Geologist, lui si è tagliato i capelli). Poi, poco più di un anno fa, dopo un mese e mezzo passato nella loro città natale, sono tornati in tour con le nuove canzoni e un pugno di altri vecchi pezzi. Il cambiamento è stato subito evidente, non solo perché sono di nuovo in quattro: Geologist si è tagliato i capelli e Panda Bear è tornato dopo tanto tempo dietro la batteria, lasciando ad Avey Tare il ruolo del protagonista. Tutto questo è riflesso anche nell’album e chi si era affezionato agli Animal Collective di tre anni fa si tenga pronto a storcere il naso, perché ogni disco è una nuova fase per il collettivo, che, senza seguire una particolare evoluzione, si rinnova continuamente. L’unica cosa che in dodici anni di carriera si è sempre evoluta seguendo una linea esponenziale è stata la qualità della produzione: lontanissima dal lo-lo-fi degli esordi, ora può vantare di un accuratezza mostruosa, che dona subito ai bassi un ruolo di primaria importanza per la prima volta nella carriera dei quattro animali.

Ma veniamo nello specifico a Centipede Hz, quarto album della “maturità” degli Animal Collective, che da Feels in poi hanno iniziato a prendere vera coscienza delle loro potenzialità e a rilasciare solo album della madonna. Non è né un punto di arrivo della loro carriera, né tantomeno una ripartenza post-MPP, è semplicemente, come già detto prima, una nuova fase e così deve essere presa. O lasciata. Ma perché lasciarla quando il suo frutto è il miglior disco dell’anno, nonché il miglior disco degli ultimi tre anni e, quindi, ora come ora, il miglior disco degli Anni Dieci? Non è una profezia, è una (personalissima, quindi da prendere come tale) lettura del presente musicale: un presente fatto di revivalismo e di cancellazione di confine tra l’indie e il mainstream, cose fighe per carità, ma l’inventiva non ci piace più? Gli Animal Collective SONO l’inventiva e somigliano solo a un’altra band: agli Animal Collective. E dodici anni di carriera non li dimostrano, tantomeno nove album.

Centipede Hz è infatti un album in perfetto stile AnCo, ma chi li ha conosciuti con MPP e My Girls senza sviluppare ulteriori approfondimenti si aspetti un’iniziale delusione: l’immediatezza di tre anni fa è nascosta benissimo in queste undici tracce, tutte da riascoltare più volte, sviscerare, assimilare e, finalmente, adorare. Il sentimento che imperversa per l’album è una psichedelia selvaggia con una tinta vagamente più tetra rispetto ai canoni della band e che tende ad assumere sfumature apocalittiche. Eh? Sì. Si vada a sentire l’organo di Today’s Supernatural, il riff di sintetizzatore di Amanita o l’atmosfera di New Town Burnout: si sente quel bell’odorino di Fine del Mondo. Il panorama musicale di Centipede Hz trova le radici anche negli ultimi side project: la vaga tinta tetra di cui sopra è sicuramente figlia di quell’album notturno che è Down There di Avey Tare, non a caso protagonista indiscusso di Centipede Hz; New Town Burnout, uno dei due pezzi di Panda Bear, oltre all’atmosfera apocalittica, ha una palese provenienza dalle session di Tomboy, l’album con cui Panda avrebbe dovuto bissare Person Pitch (il “suo” MPP) inciampando però nella chillwave; Wide Eyes è tutta un programma, essendo il primo pezzo tutto di Deakin, e proviene dagli esperimenti della sua carriera solista (solo live, niente di registrato), dando un immagine smagliante del chitarrista, che sfodera uno dei pezzi più psichedelici degli Animal Collective (vederlo suonare questa canzone in acido, rompendo una corda e stoppando il concerto per un quarto d’ora è un’esperienza che segna nel profondo).

Una volta sviscerato l’album, quello che rimane di Centipede Hz sono dieci capolavori (sì, dieci, Pulleys è un pezzo solamente ok, non so cosa ci faccia nell’album). Today’s Supernatural, superato quell’annichilente organo, è un singolone da classifica con tanto di motivetto/formula magica (“come on le-le-le-le-le-let go!”) e Monkey Riches è semplicemente un pezzone siderale, tra loop psichedelici rigorosamente made in Geologist, ritmiche tribali e un Avey Tare in forma smagliante sia dal punto di vista vocale (quanto gasa quando fa scream) che compositivo: quest’ultimo lato è esplorabile nelle varie Moonjock (il pezzo future pop degli AnCo?), Father Time (dal ritornellone facilissimo), Applesauce (la cara vecchia filastroccAnCo) e Mercury Man (pezzo psichedelico privo di riferimenti, come ai bei tempi della gioventù). Poi ci sono i due pezzi di Panda Bear. Ah, Panda. Sentirlo così poco rende ancora più belli i pezzi in cui lo si sente, anche solo per i coretti: momenti magici. Con Rosie Oh siamo nelle atmosfere tipiche del Panda, con un grande pezzo pop di ispirazione wilsoniana, che, schivando ogni struttura, sfodera una melodia meglio dell’altra. Di New Town Burnout abbiamo già parlato prima, del suo tono apocalittico, della sua derivazione chillwave malcelata… Ci eravamo scordati di dire quanto fosse intenso e struggente questo pezzo. Anche della Wide Eyes di Deakin abbiamo parlato prima e se volete riparliamo di quanto è figa quando siamo tutti fatti. Rimane solo Amanita: qui l’apocalisse incombe davvero, ma alla fine c’è una sorpresina. La coda è tutta Animal Collective periodo MPP. Ecco vedete? Sono riusciti a farci contenti tutti.
Dieci pezzi davvero uno meglio dell’altro. Identificare il migliore è un semplice fatto soggettivo. Ma di Pulleys ho già detto che non parliamo, è un pezzo ok… Ok!?
Quello che è evidente è solo una grande coerenza e la capacità di sfornare ancora un album-capolavoro. Ancora. Ancora.