Era il 18 luglio dell’anno scorso quando vi parlammo per la prima volta di Stranger Things. Tre giorni dopo la sua pubblicazione su Netflix, due giorni dopo averla guardata tutta d’un fiato, una puntata dopo l’altra, ipnotizzati da quello che scorreva sullo schermo.

Non sull’onda della nostalgia, sia chiaro: noi nati negli anni Novanta non siamo così fighi come voi che gli Eighties li avete vissuti per davvero, brilliamo di luce riflessa e di recuperi postumi. Alla fine atmosfera, citazioni e easter egg fanno tanto di Stranger Things, ma non sono essenziali quanto la trama, la sceneggiatura e soprattutto la caratterizzazione di un gruppo di personaggi già entrati a gamba tesa nell’immaginario collettivo.

Stranger Things 2 arriva un anno e passa dopo l’exploit della prima stagione, pompata da un hype mostruoso che coinvolge chiunque (squadre di calcio comprese) e consapevole che il rischio è alto, anche perché commenti come “è una serie perfetta che non ha bisogno di una seconda stagione” c’erano già alla fine dell’ottavo episodio. Bene, dopo aver toccato con mano un seguito così complicato possiamo tranquillamente affermare che sì, la seconda stagione di Stranger Things poteva anche non esistere, ma per fortuna è stata scritta, prodotta e diretta, rivelandosi un prodotto più che positivo, seppur non all’altezza degli scintillanti esordi.

*attenzione, tutto ciò che leggerete d’ora in poi potrebbe contenere succulenti spoiler, voi siete stati avvisati*

Partiamo da cosa funziona in ST2: i personaggi. I nuovi, soprattutto. C’è Max, ragazza ribelle appena arrivata ad Hawkins dalla California, dura in apparenza ma che lega da subito con i nostri 4 eroi (beh, diciamo almeno la metà del gruppo, dai). Suo fratello Billy, invece, è il classico bullo sciupafemmine, prepotente, addirittura pericoloso, che forse avrebbe meritato più caratterizzazione ma che siamo sicuri verrà ampiamente approfondito nella terza stagione, soprattutto visti gli sviluppi finali. Bob invece è un Samwise Gamgee terribilmente in carne, un ingenuo bonaccione che prova in tutti i modi a riportare serenità nella vita di Joyce, fallendo miseramente. Uno dei punti di forza della serie, fin dalla prima stagione, è il modo splendido con cui i Duffer Brothers sviluppano i rapporti tra i personaggi, non abbandonando nessuno per strada ma cercando di fornire un’evoluzione costante e sensata ad ogni carattere: se nella season one il focus era giustamente su Mike, Eleven, Hopper e Joyce, qui abbiamo uno sviluppo incredibile per Dustin, Lucas, Jonathan, Nancy e soprattutto Steve, trasformatosi rapidamente in idolo dei fan. Menzione d’onore (e di demerito) per Will: come nella prima stagione, anche stavolta il suo personaggio non è che un veicolo del Sottosopra, un vascello per fare in modo che ciò che deve accadere accada. L’approfondimento avviene attraverso i dialoghi e le azioni dei personaggi attorno a lui, ma Will rimane nel bene e nel male bloccato in un limbo già attraversato nelle prime puntate.

Max incarna le critiche medie a Stranger Things, e infatti alla fine si ricrederà su tutto

A Stranger Things piace comunque nuotare nel suo stesso brodo, e l’aver messo nuovamente Will Byers in pericolo è solo la punta di un iceberg di citazioni e rimandi alla prima stagione e ad opere che ne hanno influenzato l’immaginario. I Ghostbusters, il Millenium Falcon che Eleven faceva fluttuare, le luci natalizie di Joyce fuori dalla rimessa appena svuotata, Mad Max, Should I Stay Or Should I Go dei Clash, gli Eggo’s, giocattoli di ET e He-Man, e così via. C’è pure un nuovo dottore-in-apparenza-pazzo che gestisce l’Hawkins Lab, ma poi si rivela un bonaccione anche un po’ ingenuo. Proprio il laboratorio sposta un po’ l’attenzione da Hawkins al circondario, privando la stagione di quell’aura da cittadina dove tutti conoscono tutti che le aveva garantito anche un po’ di paragoni con Twin Peaks. Bella la scuola e i campi del circondario, ma Hawkins mi è mancata davvero, anche perché poi arrivano le scene in città e…

Okay, parliamo di cosa proprio non funziona, anche perché i lati positivi sono praticamente tutti quelli della prima stagione. I problemi sorgono quando Stranger Things prova a diventare qualcos’altro, forse per dare una svolta glamour al personaggio di Eleven, forse per tastare il terreno in vista della terza stagione, trasformandosi per un episodio in uno spin-off degli X-Men.

Che Eleven non fosse unica e speciale lo sapevamo già, e infatti si chiama “undici” mica per caso. Che qualcuno degli altri esperimenti possa essere sopravvissuto ci può ancora stare, ma che la presenza di questa sorellastra diventi lo spunto per un’intera puntata a tema “Eleven va in città” forse è esagerato, anche perché i personaggi tirati in ballo (la sorella indiana, il punk con il crestone, il grosso dal cuore tenero, quella pazza, quella sempre sull’attenti) risultano troppo stereotipati e fuori dall’universo di Stranger Things, così come l’improvviso addestramento di Eleven nell’utilizzo dei suoi poteri, il suo diventare in breve tempo una mini-criminale e il menefreghismo con cui abbandona questa nuova famiglia, facendoci capire che questo orrore è servito solamente come introduzione ad un’intera storyline che potrebbe tornare – brr – nella terza stagione.

Ehmmmm, no.

Il problema di questo episodio (ed è circoscritto solo a questa puntata, la numero 7) è che nella prima occasione in cui Stranger Things abbandona i boschi e le strade di Hawkins il castello crolla, togliendo alla serie l’atmosfera che la rende ciò che è (oltre ad aggiungere della trama laterale che male si lega al resto della vicenda). È difficile immaginare Mike, Lucas e Dustin in contesti diversi da quelli in cui li conosciamo, così come gli altri personaggi tirati in ballo. La stessa Eleven è decisamente meno convincente con i capelli lunghi e ricci, figuriamoci in versione punk-glam con eyeliner, leccata all’indietro e giubbottino figo, per un look che sembra fatto apposta per pompare oltre misura una Millie Bobby Brown già onnipresente e icona di stile.

Per il resto la trama parte piano ma non ci mette molto a ingranare, con Dustin a fare da mattatore elevandosi una spanna sopra tutti (compreso il dolcissimo finale, che mette tutti noi freaks in pace con il mondo e con la nostra adolescenza). Anche i personaggi di contorno (la sorella rompicoglioni di Lucas, la mamma di Dustin, il detective complottista, i genitori di Max e Billy) trovano una loro dignità, contribuendo a caratterizzare al meglio un microcosmo realizzato in maniera certosina che pone Hawkins e i suoi personaggi come veri e propri instant classics.

Per la terza stagione cosa dobbiamo aspettarci allora? Sicuramente il ritorno della sorella di Eleven, magari la scoperta di nuovi esperimenti ancora in vita, lo sviluppo di relazioni come quelle tra Mike e Eleven, Lucas e Max, Nancy e Jonathan, Billy e miss Wheeler. E ancora: Will che smette di essere nel mirino delle forze del Sottosopra e vive una vita normale, Dustin che si trova una ragazza, Steve che dimentica Nancy trasformandosi al 100% nel personaggio definitivo, Joyce e Hopper che cercano di iniziare una relazione sana, una cellula degli scienziati dell’Hawkins Lab che torna a fare cose brutte e cattive e il mostrone-ombra che porta nuovamente nel caos la cittadina, magari in un modo nuovo e che non contempli il povero Will Byers per una volta.

Per il resto parliamo di un seguito inaspettato e assolutamente riuscito, che porta avanti la storia con coerenza e aggiunge spessore a personaggi splendidi ma rimasti marginali. Se con la terza stagione riuscissero a chiudere con coerenza il cerchio attorno ad Hawkins potremmo avere tra le mani una delle serie tv che faranno da metro di paragone per gli anni a venire, sperando che i Duffer Brothers mantengano le mani ben salde sul volante, impedendo alla serie di deragliare in mille seguiti che, al momento, non sembrano assolutamente necessari.

Stranger Things è la serie tv perfetta per veicolare una nostalgia che non sapevamo di avere, un prodotto diventato iconico e pop in tempi brevissimi e che, per fortuna, insieme alla popolarità veicola anche emozioni e qualità, un dono raro.