Viet-Cong_02

È successo qualcosa di unico nella chiesa del Deaf Insitute, che ospitava ciechi e sordi nell’800 della rivoluzione industriale e che adesso accoglie orecchie incuriosite dal buonismo mediatico e ignare della sensibilità che si nasconde dietro una band (apparentemente) rumorosa come i Viet Cong.
Matt Flegel, centimetri e voce da drammaturgo, prima di sfoggiare uno degli episodi più suggestivi del disco di esordio, March of Progress, si rivolge al fonico indicando l’imponente disco ball che sovrasta la sala. “Puoi spegnere tutte le luci e far partire questa?
Mentre parte del pubblico è già in visibilio il resto finirà per essere conquistato.

Perché i nostri mettono in scena estro e spiritualità con una presenza che va oltre la scaletta (decide tutto Flegel all’istante), lo schiaffetto tra un brano e l’altro, la birra che fa il giro del palco perché probabilmente non inclusa nel cachet. Non c’è niente di più spettacolare del vedere un album come Viet Cong comportarsi dal vivo come un meccanismo che plasma l’umore dei quattro, che reagiscono al crescendo catartico del volume, facendo vibrare i pellicani della carta da parati che riveste l’absidiola. Ma andiamo con ordine.

I Viet Cong fanno canzoni. Poco prima gli Absolutely Free avevano calpestato il palco anticipando il tema corrente della serata: Canada is good. Lo fanno a suon di pedali, accordi dissonanti e ritmiche scientificamente decostruite, ma il pubblico freme all’idea di cosa verrà dopo. Una manciata di canzoni che rompono il ghiaccio e scaldano la minoranza dei “giovani pronti a pogare” contro gli “attenti ascoltatori incamiciati”, entrambi poi accontentati. Unconscious Melody e Oxygen Feed hanno volume e corposità tutt’altro che lo-fi, pur restando nel calibro jangle pop danzereccio. Le chitarre sono già nel vivo della serata.
I Viet Cong fanno altro. Che è un po’ il motivo per cui non c’è hype che tenga per una band dalla resa live spaventosa, lontana dei rumori della fabbrica post punk e vicina all’emisfero kraut. Chi l’avrebbe mai detto, intanto i pezzi dell’album cominciano a impossessare i quattro sul palco, i riff decadenti di Silhouette e Bunker Buster si fanno sentire con una isteria unica e senza traccia di delay e distorsioni. È il bello della diretta direbbe qualcuno. Nel locale buio dove adesso padroneggiano le luci da club della disco ball c’è March of Progress, che innesca il crescendo agonistico dei canadesi al suo culmine in Continental Shelf. Chitarre a parte, c’è il batterista che deve ancora farsi sentire, nella felicità di una platea già entusiasta di aver assistito alla rappresentazione di un lavoro che non finirà di essere acclamato, per tecnica eccelsa e impeto fulminante.
I Viet Cong fanno Death. La batteria appunto. Non ricordo esattamente cosa sia successo in quei 12 minuti ma sono certo che valgano da soli il prezzo di ogni Primavera Sound.