C’è una sola cosa che riesce a farmi rendere conto dell’arrivo dell’estate: non il caldo -scontati-, non il profumo di monoi, non le ragazze con addosso short inguinali, non il 21 di giugno alle porte, il Beaches Brew. Quando inizia l’estate è veramente arrivata. Non un semplice festival, una vera e propria istituzione, che nonostante il clima pes-si-mo, scalda i cuori dei partecipanti, facendoli bruciare calorie al ritmo delle band migliori in circolazione. Del resto cosa si può desiderare di più? Ottima location: lungo mare strepitoso, con collinetta chill per i meno avventurosi e mare a pochi passi per calmare i bollenti spiriti. Ottima gente con ottimi gusti musicali. Ottima musica, ovviamente.13418453_636002199898649_1822075863666511790_o

Le ore di macchina che mi separano dalla location sono parte dell’esperienza, all’andata: birrette ghiacciate -solo per il designated drinker- a guardare i paesaggi à la Route 66 della Romea, un numero infinito di ristoranti cheap e pompe di benzina stile Hills have eyes.

Non ci sono parole per definire l’esplosività della line-up che quei pazzi del Beaches Brew hanno tirato su, per-fet-ta: Dirty Fences, The Abigails, Audacity, Royal Headache, White Fence e -rullo di tamburi- Ty Segall and The Muggers.
Non ci sono parole per descriverla, un pezzo di scena internazionale in Emilia, avrei voluto lanciare piadine al posto dei coriandoli dalla gioia.

La gioia un po’ finisce quando trovate lavori in corso che vi fanno cambiare strada e perdere tempo.
Quindi non riuscite a ritrovare la strada per 20/30 minuti buoni, e vi perdete le sonorità pungenti e punk di quei gran bravi ragazzi dei Dirty Fences (che però suoneranno anche qui, niente di irrimediabile quindi), e quei bellocci degli The Abigails, più azzeccati di loro per un concerto in spiaggia c’è poco: non hanno bisogno di ricorrere al passato di Warren Thomas come batterista dei The Growlers per avere attenzione -che del resto si meritano- grazie a quella commistione country-psichedelica-garage tutta loro, è difficile resistergli.

Nonostante tutto arrivo in tempo per potermi godere almeno un pezzo o due degli Audacity, band giovane ed allo stesso tempo all’attivo da un decennio che si presenta come “punk fun stuff”, descrizione che li rispecchia davvero.
Al momento in tour con il loro ultimo album Hyper Vessels – supervisionato da Ty Segall. Carichi come dinamite fanno vibrare il palco dell’Hana-bi mentre intonano Counting the days, traccia d’apertura dell’album catchy e fresca, che dà una svolta davvero californiana alla serata, la gente balla si dimena, qualche ragazza cade -io- tutti si divertono.
Stare al Beaches Brew è come stare tra amici, tutti sembrano conoscersi e se non si conoscono trovano il modo di farlo, le conversazioni sono assurde, le situazioni improbabili. Il Beaches Brew più che un festival è una famiglia allargata.
La serata continua senza interruzioni, i gruppi si susseguono senza tregua, in modo tale da non far sentire agli instancabili ragazzi i dolori delle ferite di guerra.
Da lontano sento il richiamo della voce scura di Shogun, quelle sonorità melodiche della chitarra, il basso penetrante: sono i Royal Headache che cominciano a dare spettacolo sulla spiaggia.
13403885_636002726565263_8794038576585206420_oQuando parte High vedo ragazzi pogare con il sorriso, irresistibile, mi lancio nel pogo e non capisco come, non capisco perché, il momento dopo ero in spalla ad un australiano di due metri a cantare “Tried to call you on the phone ‘cause you get me high.[…] know I could just curl up and now I don’t know why. When I just wanna stay with you ‘cause you get me high, high“. Il cuore più gelido non resisterebbe a questa traccia. Quando parte Another World le danze si fanno ancora più sfrenate e mi ritrovo a surfare sulla gente. Storia vera.u
Quando White Fence inizia a suonare sotto il portico il momento sembra benedetto dal cielo: brezza perfetta, cielo limpido. Suona poco, ma abbastanza per far innamorare tutti, capace di tradurre quel vibe psychedelic-poc in tonalità che escono dalla chitarra dense e colorate, ricreando anche nell’atmosfera quel sapore 60’s revival.

Ty Segall è forse una delle personalità più discusse della scena odierna: prolifico ed instancabile, scrive tracce con la facilità con con la gente comune schiaccia pisolini.
Si potrebbe pensare che visto una volta l’esperienza non sia da ripetere. Ed invece… con l’attuale formazione The Muggers, che vede al basso Mikal Cronin, ed altra gente bella curiosa, un’associazione a delinquere. Se c’è un limite, una linea di demarcazione che separa la follia dalla sanità mentale, loro fanno avanti ed indietro a proprio piacimento.
Appena salgono sul palco la gente inizia a scalpitare come purosangue impazziti.
Squealer spacca il muro del suono. I buttafuori cercano di contenere l’euforia generale, ma “può uno scoglio arginare il mare”? No. E’ il chaos. Gente che si lancia dal palco, gente che si strappa i vestiti.
Emotional Mugger, ma in realtà ogni traccia live prende un altro sapore, è diversa, distorta, inarrivabile, energia senza controllo.
Quando inizia Baby big man (I want a mommy) è il delirio, una ragazza sale sul palco, urla nel microfono, inarrestabili.
Qualcuno inizia a cantare tanti auguri, arriva una torta sul palco, Mr Segall interagisce con la gente dicendo “We don’t sing happy birthday, we shame the guy” (o una cosa simile), tutti iniziano ad urlare “Shame on you”.
Il resto è confuso, ma quella torta compare poi sulla sua faccia, e poi su di noi, quando beatamente si lancia sul pubblico.

Non si ferma un istante, rompe una sedia e la lancia sul pubblico, quell’uomo è carisma allo stato puro, un animale da palcoscenico.
Ad un certo punto parte November Rain, qualsiasi cosa facciano è intrattenimento alla sua forma migliore.13346195_636003403231862_7923321094798683233_o

Uno degli eventi migliori dell’estate sul quale regnano alcuni dei performers più interessanti in circolazione. Non so cos’abbia fatto di buono questo Paese per meritarselo.

Foto di Francesca Sara Caruli
Galleria della giornata qui